Title: I simboli
in rapporto alla storia e filosofia del diritto, alla psicologia e alla sociologia
Author: Guglielmo Ferrero
Release date: September 15, 2025 [eBook #76877]
Language: Italian
Original publication: Torino: Bocca, 1893
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)
BIBLIOTECA ANTROPOLOGICO-GIURIDICA — Serie II, Vol. XIX.
GUGLIELMO FERRERO
I SIMBOLI
IN RAPPORTO
ALLA STORIA E FILOSOFIA DEL DIRITTO
ALLA PSICOLOGIA E ALLA SOCIOLOGIA
FRATELLI BOCCA
Librai di S. M. Il Re d’Italia
TORINO Via Carlo Alberto, 3
ROMA Corso, 216
FIRENZE Via Cerretani, 8
DEPOSITI
PALERMO MESSINA CATANIA
—
1893.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Torino — Tip. Lit. Camilla e Bertolero.
[v]
A MIO PADRE
E
A MIA MADRE
[vii]
Questo libro è solo un saggio, solo una rapida scorreria attraverso un’immensa regione inesplorata della storia dell’uomo. Ma l’autore in questa corsa affrettata ha tanto goduto il piacere dell’indagine e delle sue varie vicende, e più ancora il piacere dei lontani orizzonti intravveduti qua e là, che non mancherà, potendo, di tornare un giorno nel cuore dell’ignoto paese a esplorarlo più minutamente in lungo ed in largo. Un numero immenso di questioni si connettono con una teoria compiuta del simbolo: l’origine e lo sviluppo del linguaggio, della religione, della scrittura, del diritto, della leggenda, dell’arte; tutti i mezzi insomma con cui l’uomo ha cercato di comunicare agli altri uomini le proprie idee e i proprii sentimenti, tutte le trasformazioni coscienti e incoscienti, tutti i pervertimenti di questi segni. Ecco altrettanti argomenti, di cui molti sono in questa opera appena accennati, ma che la scienza ha finora quasi interamente negletti.
Non li ha però così interamente negletti che all’autore sia mancato in questo studio un suggestionatore potente, che eccitasse l’ideazione ne’ momenti in cui la difficoltà da sormontare era più alta, che eccitasse il coraggio nei momenti in cui le soluzioni trovate parevano perdere tutta quella verità, che è sentita così intensamente, quando l’idea balena la prima volta alla mente. Il padre intellettuale di questo libro fu l’opuscolo di Paolo Marzolo, intitolato Saggio sui segni: perciò doveva esser qui ricordato e messo al posto [viii] d’onore il nome ignorato del più grande pensatore italiano e forse anche europeo di questo secolo, le cui opere ciclopiche, piene di avvenire, ancora attendono l’ora della giustizia.
Nè lo studio puramente teorico dei fenomeni del simbolismo sarà scevro d’applicazioni umane. Si sono molto studiate le miserie morali dell’uomo, tutti i traviamenti cioè delle passioni, dell’amore, dell’odio, della vanità, della cupidigia; ma si sono poco studiate le sue miserie intellettuali, quei dolorosi errori in cui l’uomo cade per i vizi organici della sua intelligenza, e per cui le vie dell’umanità sono state sino ad oggi bagnate di tanto sangue e di tante lagrime. Eppure se si pensa che alcuni scambi accidentali di nomi hanno generato riti ferocissimi, che per una questione di statue e di quadri il sangue corse a fiumi per secoli l’impero bizantino, che anche oggi da un momento all’altro l’Europa potrebbe ardere tutta nelle fiamme di una guerra provocata da qualche metafora infelice o da qualche frase barocca scambiata per un assioma di alta politica: quando si pensa a tutto ciò, chi non vede che forse all’uomo, più che il fermento delle cattive passioni, furono e sono funeste certe debolezze e imperfezioni della sua intelligenza, per altre parti così sviluppata? L’indagine dei fenomeni del simbolismo indica alcune tra le non meno importanti di queste debolezze; mostra come con la civiltà diminuisca, invece che crescere, la sicurezza di ottenere giustizia nei contrasti della vita sociale; e può quindi indicare alcuni rimedi che leniscano una delle più tormentose infelicità del mondo moderno.
G. F.
[1]
1. L’uomo prova un vero orrore per il lavoro mentale. Non è questo un caso unico, ma rientra in quell’orrore di qualsiasi lavoro, muscolare e mentale, che è stato, checchè si dica, ed è ancora uno dei fenomeni più caratteristici della psicologia umana.
Se una cosa l’uomo ha maledetto sulla terra, è stato appunto il lavoro, anche quello dei muscoli. In ebraico la stessa radice ássab significa lavoro, stanchezza, dolore; in greco πένομαι = sforzarsi, lavorare, soffrire; di qui πενία = povertà; πείνα = fame; πόνος = fatica e patimento; πονερὸς = lavorante, povero, cattivo[1]. Il francese travail trova in italiano il suo fratello gemello travaglio con significato di dolore; come l’italiano lavoro ha per padre il latino labor che significava patimento. La leggenda ebraica della Genesi fa che Dio assegni come pena al peccato dell’uomo il lavoro; documento ingenuo e prezioso dei sentimenti dell’uomo primitivo verso l’attività. Il gusto dei selvaggi per l’ozio è del resto così noto che sarebbe quasi inutile di insistervi a lungo: basterebbe a provarlo il fatto che quasi dovunque, i lavori più faticosi sono riservati alle donne, vale a dire al sesso che ha costituita la prima schiavitù e che non si poteva ribellare per la sua debolezza[2]. Le sole forme di lavoro sono pel maschio in quasi tutti i popoli selvaggi la caccia e la guerra: perchè alla caccia e alla guerra si associano i piaceri del successo, cioè quelli che nascono dalla coscienza della potenza personale; e i [2] piaceri della vanità, per la stima che circonda nella tribù primitiva il più forte cacciatore e guerriero[3].
Così una delle più laboriose vittorie della civiltà è stata questa, di imprimere l’abitudine del lavoro così fortemente nella psiche umana, da renderlo, in certi casi, un piacere e perfino un bisogno. Ma quanto non ha costato tale vittoria! C’è voluta la schiavitù, il servaggio, la miseria, il patibolo per piegare il collo dell’uomo a questo pesantissimo giogo: e ancora la vittoria non è che parziale. «La più gran parte degli uomini — scrive Spencer — è costretta a lavorare dalla necessità»[4]. Intere classi sfuggono, a costo di gravi pericoli, alla ferrea legge; i delinquenti, i vagabondi, gli oziosi, le prostitute: il piacere dell’ozio è anzi uno dei caratteri che non mancano mai in tutte le degenerazioni, per quella legge per cui le formazioni più recenti dell’evoluzione sono le più fragili e le prime a sparire nei casi patologici: e anche coloro che si sobbarcano alla dura necessità del lavoro, ne cercano troppo spesso malsani conforti nell’alcool, perchè alleggerisca loro il peso, che son costretti a portare.
Ma se l’orrore del lavoro muscolare è stato vinto in parte dalla civiltà, l’orrore del lavoro mentale è ancor oggi assai più vivo, anche nei popoli civili. Basta, per persuadersene, osservare quella che è la forma tipica del lavoro mentale; l’attenzione, chiamata dal Ribot, volontaria; cioè lo sforzo volontario diretto a regolare le idee e le immagini, che abbandonate a loro stesse si producono accidentalmente, mantenendo nel campo della coscienza quelle che sono utili per un dato lavoro e respingendo le altre. Certo, come notò lo Spencer, la potenza dell’attenzione è nei popoli civili molto più grande che nei selvaggi: ma negli uni e negli altri, non è nei casi ordinari assai grande. «L’attenzione, scrive il Ribot, è uno stato anormale, non duraturo, che produce un rapido esaurimento nell’organismo; perchè lo sforzo finisce alla fatica e la fatica alla inattività funzionale..... Molto piccolo è il numero di coloro per cui l’attenzione è un bisogno, e rarissimi quelli che professano lo stantem oportet mori»[5]. È [3] del resto facile osservare come in ognuno l’attenzione sia sempre parziale e limitata a un piccolo numero di oggetti: un uomo è attento alle cose del suo mestiere e nelle ore del suo lavoro, ma uscito dall’ufficio o dall’officina non bada più a nulla e passa accanto a mille cose e a mille fatti senza badarci: e la parola che in italiano e specialmente in toscano indica il riposo dopo un lavoro intenso, cioè «svagarsi» esprime bene, anche col suono, che il riposo consiste appunto nel rilassamento di questa tensione che è durata troppo a lungo. Anzi l’attenzione intensa e continua è così poco capita dal volgo che, come notò finamente il Richet, esso chiama distratti gli uomini, nei quali appunto l’attenzione raggiunge un massimo di potenza, cioè i pensatori, che assorbiti da una idea, fanno mille cose, senza badare a ciò che li circonda[6].
L’uomo insomma rifugge più che può da questo faticoso sforzo mentale e più che regolare, preferisce lasciar libero il corso alle idee, alle immagini e alle loro accidentali associazioni. Di fatti un piccolo numero soltanto delle nostre idee sono il prodotto della riflessione volontaria e dell’attenzione concentrata: le altre, e le più numerose, sono l’effetto di associazioni, che lentamente e inconsciamente si formano nel nostro cervello, sotto l’influenza delle sensazioni che noi riceviamo dalle cose. Il dominio dell’inconscio è immenso nei fenomeni del pensiero, sebbene ancora poco conosciuto[7]. Il marinaio esplora con una occhiata sicura l’orizzonte e vi riconosce la tempesta o il bel tempo futuri; lo sportmann conosce la psiche del cavallo, meglio talora di Romanes o di Houzeau; senza che nè l’uno nè l’altro abbiamo nei fatti studi metodici di meteorologia o di psicologia generale. Nei proverbi, che sono l’esperienza collettiva, raccolta e riassunta in aforismi, noi troviamo spesso enunciate verità che la scienza dimostra solo con faticose indagini; così noi troviamo già espressa quella legge della maggior longevità della donna, che solo [4] da poco tempo la statistica ha dimostrato scientificamente con raffronti di numerose tabelle. È noto come i selvaggi, così incapaci di attenzione volontaria e quindi di riflessione regolare, hanno saputo utilizzare assai bene certi fenomeni della natura, senza una nozione di fisica o di chimica. «La teoria meccanica del boomerang, scrive l’Espinas[8], questo strumento di caccia che ritorna, dopo aver colpito, verso colui che lo ha lanciato, imbarazzerebbe assai i nostri dotti. Furono necessari lunghi sforzi per spiegare teoricamente i processi chimici di cui l’uomo si serve da tanti secoli per preparare i metalli, il vitto, il latte: l’orticultura ha preceduto la botanica e Darwin ha preso agli allevatori, non gli allevatori a lui, l’idea della selezione. La pratica precedè dovunque la teoria e l’azione si è dovunque adattata alle sue condizioni senza l’aiuto del pensiero astratto». Così non è vero che le opinioni popolari sulle sostanze medicamentose siano tutte immaginazioni; perchè tra l’oscurità delle superstizioni vi è pure laggiù la scintilla di vero, che potrebbe guidare la scienza a scoperte notevoli: e tutti hanno potuto vedere malattie, ribelli ai trattamenti della scienza, guarire con rimedi da comari.
Alla formazione di tutte queste idee la riflessione e lo sforzo volontario non contribuiscono punto. Prendiamo il caso del marinaio che a certi segni riconosce che il giorno di poi scoppierà una tempesta: quale è il processo mentale in questo caso? Una semplice associazione: egli conclude che il giorno dipoi accadrà quel dato fenomeno, perchè l’idea di questo si è in lui associata con la sensazione di dati altri fenomeni (direzioni del vento, ecc.). Ma come si è stabilita questa associazione nel suo cervello o nel cervello di quelli che lo ammaestrarono? Inconsciamente: siccome è una legge psichica che la coesione e quindi l’associabilità degli stati di coscienza è determinata dalla frequenza con cui essi si sono seguiti nell’esperienza, accadrà che a poco a poco, di tutti i fenomeni che precedono una tempesta avranno una maggior tendenza ad associarsi con l’idea della tempesta quelli che sono costanti e si producono sempre, a preferenza di quelli che sono accidentali ad un caso[9]. Nessuno o piccolissimo [5] sforzo è necessario per questo genere di ragionamenti: e il fatto che i ragionamenti dell’uomo in gran parte appartengano a questo tipo, ci è una prova novella del suo orrore per la fatica mentale, della sua tendenza a preferire quei processi che costano meno fatica, di questa che io chiamo legge del minimo sforzo. Tutte le cognizioni dei selvaggi, del volgo, gran parte di quelle della gente istruita, ecc., sono state acquistate con questa forma di ragionamento incosciente.
Un’altra prova che l’uomo cerca di compiere continuamente il minimo sforzo, ci è data da tutto l’andamento dell’evoluzione sociologica. Giustamente lo Spencer ha criticato con vivacità quei sistemi scientifici, che vedono in ogni istituzione umana, anche la più complessa, il risultato ultimo di uno sforzo dell’uomo diretto a crearle, proprio in quella forma in cui le troviamo. L’uomo non pensa tanto; e nessun popolo ha mai creato sopra un piano tracciato precedentemente e compiuto, le proprie istituzioni. Ogni organismo sociale non è mai l’effetto di una idea complessa, creata da un popolo ad un dato momento; ma l’accumulo di tante piccole invenzioni ed idee, che ogni generazione ha portato, come suo contributo all’opera intera. Lo si vede chiaramente studiando la genesi delle istituzioni sociali. I ministeri sono oggi una istituzione molto complessa, e per questo non sono stati creati di un colpo: ora quale fu la loro origine? In Egitto il porta-ventaglio del re faceva parte dello stato maggiore, e comandava in guerra una divisione dell’armata. In Assiria gli eunuchi del re acquistarono una grande importanza politica; divennero i consiglieri del re in pace e i suoi generali in guerra. In Francia, ai tempi merovingi il siniscalco, il ciambellano, che erano servitori della persona del re, diventarono pubblici funzionari. In Inghilterra, nei tempi più antichi, i quattro grandi funzionari dello stato erano il Hroegethegn o propriamente guardarobiere; il Horsthegn o sopraintendente ai cavalli; il Dischthegn o siniscalco; lo Scenco o Byrele o propriamente cantiniere[10]. Ciò dimostra che la carica di ministro non fu creata deliberatamente: ma che quando il re o capo si trovò, specialmente per affari di guerra, a veder troppo numerose le sue funzioni, ne affidò alcune ad un suo servitore; ma [6] non era quello certo nella mente sua che un provvedimento provvisorio, che, solo per il persistere delle condizioni che lo avevano determinato, diventò poi definitivo. Le piccole modificazioni successive trassero da quel primo abbozzo, tutta la struttura politica.
Così il sistema giudiziario non nacque ad un tratto, perchè si sentisse il bisogno di frenare nella società i delitti, che per molti selvaggi sono cosa normale e che il capo, che il più delle volte è esso il primo brigante, non pensa affatto a reprimere. Accadde spesso che un debole spogliato da un più forte, ricorresse al capo offrendogli doni, per riaver le sue cose: questo piccolo ripiego del debole, suggerì al capo l’idea, specialmente in vista dei donativi da ricevere, di costringere i sudditi a portare innanzi a lui le loro questioni: ecco sorgere e modificarsi a poco a poco le istituzioni giudiziarie e le tasse di giustizia. A noi nessuna idea sembra più elementare che quella, che un funzionario pubblico debba esser pagato per le sue funzioni: eppure a questa idea non si è giunti, che attraverso una serie di idee più semplici, create una dopo l’altra durante un gran numero di anni. Infatti in origine nessun funzionario era pagato; ma essi cercavano di farsi dare dei regali in compenso dell’opera loro: tali doni divennero obbligatori col tempo; da doni in natura si convertirono in somme di denaro; poi divennero retribuzioni fisse. In Russia e in Spagna i funzionari minori, che non sono pagati, si fanno dare dei regali dalla gente che ricorre a loro: come a Jummoo ogni suddito poteva farsi ascoltare da Gulab-Singh, pagandogli una rupia. Tra gli Ebrei e nella Francia del Medio Evo i giudici ricevevano dei doni, la cui obbligatorietà fu in Francia riconosciuta da leggi: in seguito poi fu convertita in uno stipendio. Così pure il Damage cleer, che era una gratificazione all’usciere, prima volontaria, poi obbligatoria, divenne nel secolo XVIII in Inghilterra uno stipendio fisso[11].
Evidentemente, tutto ciò accade perchè l’uomo pensa poco, anzi evita di pensare, e innanzi ai bisogni più urgenti, si contenta di provvedere con un rimedio momentaneo; ma per trovare il quale egli deve [7] faticar meno. Tutte le istituzioni, anche le più solide, nacquero da provvedimenti provvisori. Certo, pel maggior sviluppo mentale dei popoli civili, noi possiamo uscire assai più presto dal provvisorio e lavorare anche in vista di risultati definitivi; ma forse il vantaggio è più nella maggior velocità con cui dalla prima umile idea si generano le altre, che la allargano e la compiono, che non nella maggior complessità dell’idea primordiale. La storia delle società cooperative ne è una prova. Certo, idee complesse, grandiose e interamente adattate a un bisogno, nascono talora, ma in cervelli di genio: ora il genio è un fenomeno anormale, e la misera sorte che tocca così spesso a quelle grandi idee ci ammonisce tristamente che esse sono il più delle volte una splendida violazione delle leggi naturali.
Del resto, nessuna meraviglia deve farci questo orrore dell’uomo per il lavoro fisico e mentale. Il lavoro produce sempre una disintegrazione nei tessuti; ed è quindi un dolore, se il tessuto non è abbastanza robusto per sostenerlo. Si potrebbe dire che per un tessuto debole il lavoro e la fatica coincidono; mentre per il tessuto robusto sono separati da uno spazio di tempo, che si può utilmente impiegare. Ora, le corteccie cerebrali sono ancora, nella massima parte degli uomini, in uno stato di debolezza normale, per cui rapidamente si stancano e si esauriscono.
2. La fisica ci dimostra che un corpo in quiete, vi resta eternamente, se non riceve da un altro corpo il movimento: la chimica, che senza la luce o il calore o l’elettricità o un’azione meccanica (urto, pressione), non sono possibili fenomeni chimici, perchè gli atomi dei corpi devono ricevere da quelle forze fisiche il movimento, senza cui non si possono separare e ricongiungere in nuove combinazioni. È la legge dell’inerzia che domina sovrana il mondo della materia: ma pochi sospettano che essa sia pure una legge nel mondo del pensiero[12].
Anche il cervello, per agire e produrre le idee, le imagini, le sensazioni, ecc., ecc., ha bisogno di essere continuamente rifornito di movimento; [8] e il canale per cui queste onde di movimento e di vita gli vengono trasmessi, sono i sensi. A noi, quella confusa attività che ronza di continuo nel nostro cervello, può dare l’illusione che le idee, le immagini, i sentimenti si producano spontaneamente; ma è una illusione prodotta dal fatto che noi non avvertiamo il più delle volte quale è stata la causa eccitatrice di uno stato di coscienza; come, senza gli studi della chimica, crederemmo che certe combinazioni si facciano da loro e non per l’effetto della luce o dell’elettricità.
«L’attività cerebrale, scrive il Beaunis[13], in un dato momento è costituita da un complesso di sensazioni, di idee, di ricordi, di cui solo pochi sono avvertiti dalla coscienza abbastanza vivacemente, perchè noi ne abbiamo una percezione nitida; mentre gli altri non fanno che passare senza lasciar traccia durabile: si potrebbero paragonare i primi alle sensazioni precise che dà la visione nella macchia gialla dell’occhio; le altre, alle sensazioni incerte della visione indiretta. Così accade spesso, in un processo psichico, composto in una serie di atti cerebrali successivi, che un certo numero di anelli intermediari ci sfugge... Probabilmente la maggior parte dei nostri fenomeni interni si produce in noi a nostra insaputa; e, ciò che è più importante, queste sensazioni, queste idee, queste emozioni che noi trascuriamo, possono ancora agir su noi come eccitatori su altri centri e diventar causa di movimenti, di idee, di propositi, di cui noi abbiamo coscienza». Invece che abolite tutte le eccitazioni che vengono dalle sensazioni e che si moltiplicano poi nella psiche per la legge dell’associazione (una sensazione può risvegliare una immagine o una idea e questa mille altre, e così via), lo stato della mente sia una inerzia assoluta, lo dimostrano le esperienze ipnotiche, in cui tale abolizione è effettuata. «Quando si domanda, scrive pure il Beaunis[14], a un soggetto ipnotizzato: — A che pensate? — Quasi sempre la risposta è: — A niente. — È dunque un vero stato di inerzia o di riposo intellettuale, che del resto si accorda assai bene con l’aspetto fisico dell’ipnotizzato; il corpo è immobile, la faccia impassibile ed ha una espressione [9] di riposo e di tranquillità come di rado si vede anche nel sonno ordinario. Di sicuro mancano i sogni e i pensieri d’ogni genere, perchè i soggetti che si ricordano così bene, quando sono ipnotizzati, di ciò che è accaduto loro nel sonno antecedente, non si ricordano nulla di un sonno ipnotico, in cui non sia stato loro fatta alcuna suggestione».
Ora, su questa inerzia del cervello vengono le sensazioni ad agire, come il raggio di sole o la corrente elettrica nello stato di quiete relativa cui si trovano gli atomi di un corpo prima della combinazione. La forma più elementare del fenomeno è quella della dinamogenia, della eccitazione, cioè, che produce in tutta la psiche una sensazione molto intensa, che non è se non una corrente molto forte di movimento molecolare che, spandendosi per il cervello, gli comunica movimento e quindi attività, come il raggio di sole che lo comunica all’atomo. Chi non ha provato che la vista di un paesaggio intensamente luminoso, l’ascoltazione di una musica aumentano la vivacità delle immagini, dei sentimenti, dei pensieri?[15]. Oggi, dopo le esperienze del Feré e del Binet, noi possiamo verificare sperimentalmente il fenomeno. Il Feré infatti trovò che sotto forti sensazioni la forza muscolare aumentava: «una eccitazione forte, egli scrive[16], sia della vista, sia dell’udito, sia dell’odorato o del gusto, determina in soggetti normali una deviazione nell’ago del dinamometro, con reazione variabile secondo l’intensità dell’eccitazione».
Haller aveva già da un pezzo osservato che il suono di un tamburo rendeva più veemente lo sgorgo di una vena aperta; e Binet, trasportando l’osservazione in un campo più propriamente psichico, trovò che, recitando a degli ipnotizzati dei versi e domandato loro se li ricordavano, dopo averli svegliati, dichiaravano non ricordarsene; ma se si mostrava loro un disco rosso, un ricordo parziale, di qualche frammento diverso, tornava. Così pure alcuni soggetti, assolutamente ribelli [10] a qualsiasi suggestione, nello stato ipnotico vi si prestavano docili, se si mostrava loro il disco rosso; e con lo stesso mezzo il Binet potè riavvivare in altri soggetti antiche suggestioni che, per il tempo, andavano indebolendosi. In tutti questi casi, in cui vediamo la sensazione agire proprio come agirebbe una sostanza chimica, per es., uno dei così detti veleni dell’intelligenza, l’alcool, qual dubbio può esistere che la sua funzione sia quella stessa delle forze fisiche nelle combinazioni chimiche, cioè una comunicazione di movimento, che, scuotendo l’inerzia cerebrale, rende possibili o aumenta i fenomeni del pensiero?[17].
La legge delle associazioni mentali, che è la legge suprema dell’attività psichica, si può ricondurre a questo stesso principio dell’inerzia. Una immagine, una idea, un sentimento non durano eterne: una imagine, viva sino che la sensazione è ancora recente, si scolora col tempo, sino a dileguarsi; una idea, che al momento in cui la si pensa occupa quasi il centro della coscienza, tramonta poi a poco a poco nell’oblio; un sentimento, anche se intensissimo al momento in cui si produce, a poco a poco infievolisce sino a spegnersi totalmente. Insomma, gli stati di coscienza, di qualunque specie, durano un certo tempo, poi impallidiscono fino a sparire; perchè, essendo anche essi come tutti i fenomeni naturali, energia, cessano quando hanno consumata la quantità loro iniziale di forza; come i corpi in moto, si fermano per l’attrito, e le sostanze chimiche non durano eternamente attive. Ma anche quando è esaurito, uno stato di coscienza non è perduto per sempre per la coscienza, e può rivivere, come una sostanza chimica, che ha perduta ogni energia, la riacquista, se una forza fisica la rifornisce di movimento. Ora, appunto quella stessa funzione che esercita nelle combinazioni chimiche la luce, l’elettricità, il calore, la pressione, l’esercita nel processo di associazione, per cui gli stati di coscienza trapassati ritornano, la sensazione: perchè ogni associazione ha il suo ultimo punto di partenza in una sensazione, a cui furono congiunti nell’esperienza anteriore e che si ripresenta.
[11]
Infatti è una osservazione banale, che i nostri sentimenti hanno risvegli e ritmi bizzarri indipendenti dalla nostra volontà: la causa ne è appunto questa, che essi sono per associazione risvegliati sopratutto dalle sensazioni, come si presentano accidentalmente. Noi non possiamo risentire a volontà un antico dolore o piacere; ma la vista dei luoghi in cui lo provammo ne risuscita almeno una debole imagine, talora anche lo risuscita intenso come prima. Spesso non sentiamo più rancore contro un uomo che ci fece del male; ma se vediamo un altro che gli somigli sentiamo, senza volerlo, una ripulsione verso di lui: sono gli antichi sentimenti di odio rianimati per associazione dalla sensazione analoga del suo volto. Così alla Costa degli Schiavi gli indigeni fanno corresponsabili dei delitti d’un individuo tutti quelli del suo stesso colore; e alcuni missionari francesi furono maltrattati, perchè non un francese, non un missionario, ma un bianco, aveva fatto loro dei torti[18]: vale a dire i sentimenti di avversione non si associano con l’idea della nazionalità, della carica, ecc., ma con la sensazione del colore della pelle.
I sentimenti di affetto per una persona cara, che sonnecchiano nella lontananza, come aveva osservato il proverbio: lontano dagli occhi, lontano dal cuore, e che l’immagine mentale è impotente a eccitare, risorgono vivaci, se ne vediamo un ritratto o una lettera: ed ecco l’origine di quel feticismo così comune e generale dell’amore: si conservano ninnoli, cianfrusaglie appartenenti alla persona amata come cose preziose, perchè, guardandole o toccandole o baciandole, la sensazione visiva o tattile risveglia tutti i sentimenti di affetto, che la sola idea è impotente a eccitare[19]. Questo rapporto tra la sensazione e la reviviscenza dei sentimenti si osserva nei fenomeni ipnotici semplificato e quasi direi ridotto schematicamente, come del resto tutti i fenomeni psichici. Si può nelle esperienze ipnotiche mutare la personalità di un ipnotico (cioè il complesso dei suoi sentimenti e delle sue idee), dandogli un oggetto che sia in qualche rapporto [12] con la personalità che si vuole suggerire: così applicandogli un pettine tra i capelli, diventa donna; ponendogli al fianco una spada, diventa generale; ponendogli una penna sull’occhio sinistro, si crede impiegato; portando tutti questi oggetti contemporaneamente, conserva tutte le personalità, che va perdendo a mano a mano che si tolgono gli oggetti[20], vale a dire che la sensazione di quel dato oggetto ha potere di risvegliare una infinità di stati di coscienza, idee e sentimenti che gli sono associati; e quella abolita, anche gli stati di coscienza spariscono.
Nè diverso è quell’altro curioso fenomeno, che cioè i movimenti e le espressioni, che sono l’effetto abituale di una emozione, possono, se riprodotti volontariamente, divenir essi alla lor volta origine dell’emozione. «Esprimete, scrive il Maudsley[21], con la fisonomia una emozione particolare, la collera, lo stupore, la cattiveria; e l’emozione espressa si sveglierà in voi; anzi vi sarà impossibile provare altra emozione, fuori che quella la cui espressione vi è stampata sul volto». L’Espinas notò come i cani, i gatti, le scimmie, giuocando a mordicchiarsi, a rincorrersi tra loro, finiscono per azzuffarsi sul serio[22]; nè si può dire che almeno per questo rispetto gli uomini siano differenti dagli animali. Anche questo fenomeno è messo stupendamente in rilievo dall’ipnotismo, in quella che si chiama suggestione per attitudine e che fu scoperta dal Braid. «Se si pone, scrive il Beaunis (op. cit.), il soggetto nell’attitudine della preghiera, gli si suggerisce, senza dire una parola, l’idea della preghiera e si provocano allucinazioni ed atti in rapporto con quella idea. Esiste dunque una associazione stretta tra un movimento, anche comunicato, e i pensieri e i sentimenti di cui quel movimento è espressione». Così accade di tutte le altre emozioni, la collera, l’orgoglio, l’amore, la gioia. In questi casi è la sensazione muscolare, nascente dalla contrazione dei muscoli, che entrano in giuoco a produrre quella espressione, [13] che, associata a quegli stati di coscienza che costituiscono la emozione, la fa rivivere.
Ma sempre dunque il rinascere di un sentimento esaurito è determinato da una sensazione, che le fu associata.
Non solo i nostri sentimenti, ma anche le nostre idee sono richiamate per associazione quasi sempre dalle sensazioni. Ripassando per un luogo, in cui ci formammo una data intenzione, l’intenzione ci ritorna alla mente; vedendo un oggetto che tenevamo in mano quando avemmo una data idea, ritorna il ricordo dell’idea; toccando con le dita il nodo che facemmo ad un fazzoletto, risorge il pensiero che avevamo nella mente allorchè intortigliammo quel nodo; vedendo un libro si riaffollano tumultuariamente i ricordi delle idee che vi leggemmo, ecc., ecc. Il punto di partenza d’un ricordo, come quello d’un sentimento che risorge è sempre una sensazione, per quanto questo così semplice rapporto possa essere in realtà mascherato dalla complicazione con cui le idee e i sentimenti suscitati da una sensazione, e spesso da una sensazione appena avvertita, se ne associano altri. «Lo svolgimento mnemonico, scrive il Marzolo[23] comincia dall’essere una parte della superficie sensibile ricondotta alla stessa condizione in cui era sotto la serie affettiva o ideologica già altra volta contemporanea, o immediatamente continua».
Certo vi sono persone che possono serbare anche molto a lungo un sentimento o un ricordo, quando la causa eccitatrice è lontana; ciò significa che in essi quegli stati di coscienza sono di una grande intensità e che quindi solo dopo molto tempo esauriscono la loro energia iniziale. Ma quando questa energia sia consumata, solo una qualche sensazione che fu in origine associata a quel sentimento o a quella idea, può risuscitarli: una sensazione, che portando una corrente di movimento molecolare al cervello, ridia alle cellule le primitive vibrazioni, che si sono estinte: appunto come l’atomo di ossigeno, esauritosi nel lavoro, ha bisogno di nuova provvista di movimento, per ritornare attivo come era prima[24]. Anche insomma il [14] cervello non è capace di entrare in movimento e di agire, se non riceve dal di fuori l’impulso; sottoposto in questo anch’egli alla universale legge di inerzia.
Anche qui l’ipnotismo, questo prezioso strumento di vivisezione psichica, ci mostra semplificata e quasi tangibile la legge. Abbiamo visto che lo stato mentale dell’ipnotizzato, in cui le vie di comunicazione con le cose sono occluse, è una vera inerzia assoluta; ma scrive il Beaunis (op. cit.), basta la menoma suggestione, la menoma parola pronunciata dall’ipnotizzatore perchè all’inerzia succeda l’attività e una attività che può essere anche più grande che allo stato normale. In altre parole, possiamo ricondurre il fenomeno psichico a fenomeni d’inerzia e di movimento comunicato, così: esiste nel fondo della psiche un sedimento di idee, immagini, sentimenti, che sono stati di coscienza esauriti, in riposo; basta che una sensazione penetri in quel fondo e quasi direi in quel deposito, perchè comunicando il suo movimento molecolare ad altre regioni del cervello, risusciti a nuova vita quegli stati di coscienza che furono più spesso in associazione con lei. Non altrimenti la pianta che al buio cresce con foglie senza colore, si tinge di verde se la esponete ai raggi del sole.
Quindi si vede confermata quella splendida intuizione del più grande psicologo del secolo, il Marzolo, che affermava la condizione sine qua non del pensiero essere una sensazione attuale[25].
[15]
3. Su questi due concetti, la legge del minimo sforzo e l’inerzia mentale, potremo costruire una teoria naturalistica del Simbolo, di questo strano fenomeno della primitiva vita dell’uomo, che tante traccie di sè ha lasciato anche nella civiltà. Ma se una spiegazione può già essere, dopo quanto ho detto, scartata senz’altro, è quella che fu data finora: che cioè quei simboli del diritto, della religione, della politica primitiva, siano una creazione volontaria dell’uomo, e stiano a significare qualche concetto profondo e nascosto. L’uomo ha avuto e ha ancora così poca coscienza dei risultati ultimi, a cui giunge per l’accumulazione di tutte le sue minime invenzioni, la sua attività, che ha persino distrutte istituzioni credendo di conservarle[26]: immaginarsi se era possibile, che ai primordi specialmente del suo sviluppo mentale, inventasse una specie di crittografia speciale per il diritto o la religione, quando non possedeva che pochi segni e appena sufficienti ai bisogni più elementari della vita sociale[27].
Anche i simboli devono essere un effetto non premeditato di una serie di piccole invenzioni fatte per soddisfare qualche bisogno elementare: Hartmann vi potrebbe forse vedere un’altra manifestazione di quell’Inconscio, che domina secondo lui tutto l’infinito svolgersi della vita.
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1. Oggi il documento scritto ha invaso tutti i campi o quasi della vita giuridica. Qualunque atto noi compiamo, un testamento, un contratto, una donazione, ecc., noi vogliamo garentirci, che i patti conchiusi o la volontà manifestata risultino da una prova sicura, e non siano abbandonati ai ricordi, che possono essere poco sinceri, delle parti interessate; e questa garanzia ci è offerta dall’atto scritto, a cui talvolta noi diamo ancora maggior valore con speciali formalità (autenticazione, trascrizione, ecc.). E a noi familiarizzati da tanto tempo con l’idea che nessuna garanzia migliore esista, che quella di mettere in iscritto la volontà, e affidare a mani sicure la carta, ci sembra che quella idea debba essere una idea elementare dello spirito umano e che anche il cervello più rozzo debba capirla: ma invece tale idea è molto complessa, è il frutto di una lunga accumulazione d’idee minori. Anzitutto essa suppone la conoscenza della scrittura; e la scrittura, come vedremo, non solo è un prodotto tardivo della civiltà, ma anche, dopo scoperta, per un pezzo rimane mal compresa dai più, strumento usato solo dai pochi e dalla moltitudine considerato come una negromanzia o una potenza misteriosa. Inoltre quell’idea suppone una complicata organizzazione politica; un sistema giudiziario già assai sviluppato; l’istituzione di speciali impiegati dello Stato addetti a garantire la fede degli atti pubblici; uffici speciali incaricati di conservarli: cioè una serie di istituzioni che non possono essere esse stesse che il prodotto d’idee assai complesse.
Ma siccome anche prima che esistessero tali istituzioni e si conoscesse la scrittura, si fecero contratti, vendite, compre, ecc.; e siccome anche allora gli uomini cercavano di garantirsi dai pericoli [18] dell’altrui avidità, dovettero esistere mezzi di garanzia e di prova più semplici, quali l’uomo poteva crearli, data quella sua tendenza a compiere sempre il minimo sforzo mentale. Molti dei così detti simboli giuridici primitivi non sono che gli equivalenti del nostro documento scritto, quali potevano darli tempi di minore civiltà. Il processo per cui si costituì questo sistema di documentazione, senza archivi e senza scrittura, fu abbastanza semplice, come doveva essere presso popoli cui il lavoro mentale riesce ancor più faticoso che a noi: anzi fu così semplice, che fa meraviglia come nessuno l’abbia ancora scoperto, e sia invece andato complicando un problema che era piano, supponendovi dentro misteri e oscurità, esistenti solo nella mente degli studiosi.
Qualunque scopo noi vogliamo raggiungere, ci è necessario compiere una serie d’azioni più o meno numerose, più o meno adattate, che ci conducano al nostro fine: ora, quando noi abbiamo veduto più volte un certo scopo raggiunto impiegando certi mezzi, associamo tanto l’idea dell’uno con l’idea degli altri, che la vista di uno degli atti che servon di mezzo, ci risveglia l’idea dello scopo a cui riuscirà. Così noi se in campagna di lontano vediamo un uomo immobile col fucile in mano, in atto di attesa paziente, conchiudiamo subito che si tratta d’un cacciatore, che spia la preda. Similmente per compiere qualsiasi atto giuridico, una compra, vendita, una adozione, un matrimonio, è necessario compiere una serie d’atti, che conducano allo scopo finale; così per avere come proprio un figlio d’altri bisogna nutrirlo, vestirlo, mantenerlo nella propria casa; per tenersi come propria una donna, condurla nella casa, ecc.: e nello stesso modo l’idea di quegli atti si associa all’idea dello scopo, in modo che, vedendoli eseguire, tutti ne inducono quale è lo scopo a cui mira colui che li compie.
Si può credere che sinchè una società è molto piccola, il solo compimento di quegli atti che conducano allo scopo finale di questo o quel negozio giuridico, sia sufficiente a costituire la prova. Questa sarebbe la ragione per cui nelle piccole società dei popoli, estremamente inferiori, come gli Australiani e in generale le società della Polinesia, si trovino così scarse traccie di simbolismo giuridico. Ma quando la società cresce, quando la compra e vendita fatta tra due [19] individui, il matrimonio o l’adozione di un figlio, possono passare inavvertite a una grande quantità di persone, sorge una difficoltà: come garantirsi contro la possibile mala fede delle parti con cui si debbono compiere gli affari giuridici? Chi assicura il compratore, che dopo qualche tempo il venditore non pretenda la cosa venduta come sua, quasi gli fosse stata rubata, se nessuno può asserire che è stata realmente venduta? Chi assicura l’adottato che il suo padre fittizio non lo abbandoni, quando il capriccio è passato; o l’adottante, che spesso deve far doni al figlio fittizio, che questi non fugga, dopo aver ricevuto i regali?
Questo bisogno di garantire con una prova gli atti giuridici, si dovè far sentire assai vivace tra i popoli primitivi, nei quali la frode e l’astuzia sono sviluppate quasi sempre assai più che nei popoli civili[28]. Si rimediò allora a questo bisogno, con l’espediente che costava minor fatica mentale a trovarsi: di tutti quegli atti che bisogna compiere perchè un negozio giuridico raggiunga il suo scopo, e che erano mentalmente associati all’idea del negozio stesso, se ne scelse uno, e si compì quello in presenza di testimoni. Quest’atto risvegliava nei testimoni l’idea dell’atto giuridico, con cui era associato abitualmente e della volontà delle parti di compierlo; come oggi la risveglia la firma, che i contraenti appongono al documento, redatto dal notaio.
Prima però di passare a verificare se i fatti legittimano questa teoria, si osserva che in generale non deve farci meraviglia se in molti simboli quegli atti, che furono scelti a fissare l’idea del negozio [20] giuridico, si trovano in qualche modo deformati dal loro carattere primitivo; perchè tutti i segni usati dall’uomo, le parole, i caratteri della scrittura, ecc., ecc., tendono a mutarsi e abbreviarsi per diventare sempre più comodi all’uso: questi segni dei negozi giuridici non si sottraggono alla legge comune.
2. Se la conquista è il primo mezzo d’acquisto della proprietà, in seguito, con lo svilupparsi della società, gli si sostituisce lo scambio. Ma la forma primitiva del commercio non potè essere che lo scambio di due oggetti reali e presenti, di valore più o meno proporzionato. Difatti l’idea di scambiare una cosa attuale e presente, con una cosa futura o lontana, o l’idea di scambiare tra loro due cose future e lontane, suppone un notevole grado di sviluppo psichico: suppone cioè il sentimento della previdenza abbastanza sviluppato, per poter rappresentarsi, con sufficiente vivezza, i bisogni dell’avvenire; e i sentimenti in generale giunti a un grado di notevole astrazione, per poter godere idealmente dell’utilità futura di una cosa, tanto da preporla ad un godimento attuale. Ora l’uomo primitivo è imprevidente e non gode che il momento presente, l’attimo che fugge: passato e futuro non esistono quasi per lui[29]. Il Sohm notò infatti che nell’antico diritto [21] tedesco nessun contratto si faceva per solo consenso, ma che era inoltre necessaria la consegna della cosa: non si deve però intendere che nel diritto tedesco il contratto consensuale fosse deliberatamente escluso, ma che non ne era nemmeno concepita la possibilità, non potendone sorgere l’idea se non quando, perfezionato l’individuo e la società, si comincia da un lato a provvedere in anticipazione ai bisogni dell’avvenire, e dall’altro a sfruttare nel presente le ricchezze future.
Siccome dunque in origine ogni contratto è seguito dalla consegna della cosa, l’idea del contratto, cioè di una cessione volontaria, e della consegna si associano: altre idee non si associano, perchè allora l’atto giuridico non contiene altri elementi. Quindi chi ha consegnata una cosa, ha conchiuso il contratto e non gli è lecito tornare indietro, nè potrà più negare di averlo conchiuso, perchè l’atto della consegna è prova palmare che egli era d’accordo col compratore; quindi se la consegna della cosa fu fatta innanzi a testimoni, ogni supposizione di furto o di frodolenta appropriazione rimane esclusa. Anche oggi, chi fosse accusato di furto, potrebbe difendersi, provando che l’accusatore gli diede in persona la cosa; ma non sarebbe quella la sola prova, giacchè egli potrebbe giustificarsi anche provando di averla avuta da altri, per ordine di lui, in seguito ad un contratto conchiuso mesi o anni innanzi, perchè le forme dei nostri contratti sono più svariate e complesse: invece, in un tempo in cui tutti i contratti si eseguiscono immediatamente, quella forma di prova che ora è secondaria, diventa l’unica possibile, e il fatto che il venditore gli consegnò pubblicamente la cosa, prova che il compratore non l’ha rubata e ha diritto di tenersela, come oggi lo proverebbe un documento scritto. È insomma una forma primitiva di prova.
Ecco perchè la tradizione ha, nelle legislazioni primitive, tanta importanza; ed è applicata in forme ridotte, naturalmente, anche alla proprietà immobiliare. Così presso gli antichi tedeschi non bastava la presa di possesso senza forme, col solo permesso del tradente, per la trasmissione della proprietà fondiaria; ma volevasi la presenza dei due contraenti sul fondo: la cessione si compiva innanzi a testimoni con due atti formali, la consegna di una parte del fondo al compratore (un ramo d’albero, una zolla, ecc., ecc.) (sala, traditio) [22] e l’uscita del tradente dal fondo (exire)[30]. Tra i Khonds, chi vende la sua terra, invoca a testimonio della vendita la divinità del villaggio; poi dà al compratore una manciata di terra del campo[31]. Nell’antica Scozia la cerimonia dell’investitura terminava così: il procuratore del signore si chinava, raccattava una pietra e una manciata di terra, e la consegnava al procuratore del vassallo conferendogli in tal modo il possesso reale, effettivo, materiale del feudo[32].
Quindi non si può supporre in questi atti di consegna, spesso così solennemente eseguiti, nessun significato nascosto. Se il compratore fosse entrato senz’altro nel suo nuovo fondo, senza farselo consegnare dal venditore in presenza di testimoni, non avrebbe avuto nessun documento del contratto conchiuso, e il venditore avrebbe poi potuto cacciarnelo come usurpatore: come oggi chi facesse un contratto puramente verbale, senza testimoni e senza scritti, non avrebbe altra sicurezza della sua esecuzione che nell’onestà dell’altra parte. La consegna invece fatta innanzi a testimoni, assicurava il tranquillo godimento della proprietà.
3. Analoga origine hanno le cerimonie della vendita di una casa: si faceva toccare all’acquirente in certi casi la porta[33], in certi altri i cardini[34]: per l’uno o l’altro atto si effettuava il trapasso della proprietà. Non è questa che una forma abbreviata di consegna; certo in origine si consegnava in presenza di testimoni la casa, facendovi entrare l’acquirente e uscendone il venditore; in seguito, a mano a mano che l’associazione tra l’idea di quegli atti e l’idea della trasmissione della proprietà si faceva più stretta, bastò abbreviare la cerimonia, sino a ridurla a un atto solo e semplicissimo, quello di toccare la porta o i cardini, che ebbe quindi lo stesso valore che ha oggi la firma delle parti sotto un contratto di compra e vendita. Quando si era compiuto quell’atto, il contratto era avvenuto e i testimoni potevano attestarlo.
[23]
4. L’uomo che si sceglieva una donna per compagna della vita, la toglieva alla casa dei suoi parenti e la portava nella sua: quindi dovè presto formarsi un’associazione di idee, per cui quando si vedeva una donna uscire dalla sua casa paterna e andare in quella di un altro uomo, la si considerava come sua sposa. Quando poi si cercò di garantire dai possibili capricci dell’uomo il contratto coniugale, l’artificio più immediato dovè esser quello di fare assistere all’uscita della sposa dalla casa in unione con il marito, dei testimoni, che attestando di aver visto compiere quell’atto con cui si associava l’idea del matrimonio conchiuso, potevano essere prova della legittimità delle nozze, come oggi ne è prova l’atto dell’Ufficiale di stato civile. Tale dovè essere l’origine di quella cerimonia nuziale, già un po’ modificata, che troviamo nel diritto indiano; la cerimonia detta panigraha o unione delle mani, nella quale «pronunciata la formola, la coppia cammina stretta per mano, e il matrimonio è irrevocabile al settimo passo[35]»; probabile abbreviazione dell’uscita della coppia dalla casa, compiuta alla presenza di testimoni.
Così presso i popoli in cui i matrimoni sono compiuti dai genitori quando i figli sono ancora bambini, la formalità giuridica consiste nel menare la sposa nella famiglia del fidanzato, e, dopo avervela fatta trattenere per qualche tempo, nel ricondurla ai suoi: compiuta tale cerimonia i due ragazzi sono legalmente sposi, aspettando di diventarlo di fatto[36]. Nella tribù Cuinmurbura (Australia) le fanciulle sono fidanzate dai genitori bambine e gli sponsali sono accompagnati da un atto cerimoniale: i genitori dipingono la fidanzata e le ornano i capelli con penne; e allora il cugino maschio la conduce al luogo ove siede il futuro marito, con le gambe incrociate e in silenzio; e la fa sedere dietro a lui. Dopo un certo tempo toglie le penne dai capelli di lei e le mette nei capelli dello sposo; e quindi riconduce la fanciulla ai suoi genitori[37].
[24]
5. È noto come la famiglia cominciò quasi dovunque dal matriarcato, perchè la sfrenata licenza dei costumi primitivi, rende incerta la paternità[38], e l’uomo primitivo crede di poter trovare più sicuramente il suo sangue nei figli della propria sorella, che in quelli della donna che egli possiede momentaneamente. Ora, quando per un complesso di cause, specialmente per l’utilità che un figlio rappresenta nella vita selvaggia, la paternità cominciò ad affermarsi, era naturale che chi voleva tenere per sè il figlio che credeva di aver generato, assistesse al parto della donna, la nutrisse per quel poco di tempo in cui, avvicinandosi il parto, il lavoro le era più difficile; e infine pensasse al sostentamento del figlio. Per avere i frutti bisogna pur curare l’albero. Di qui un’associazione tra quegli atti e l’idea della paternità, per cui chi li abbia compiuti è di pieno diritto considerato come padre: e come noi oggi associamo l’idea della paternità a quella di un matrimonio legittimo, così in molti popoli primitivi la si associa al compimento di quegli atti, che tengono luogo, quando non esistono nè Stato civile, nè Uffici di anagrafe, di una dichiarazione pubblica di paternità. Così, tra gli Esquimesi, la puerpera e il bambino devono nutrirsi solo con cacciagione uccisa dal marito, altrimenti il bambino passerebbe come illegittimo[39]; e al Bengala, tra i Larkas, dopo una nascita, il marito e la moglie sono dichiarati impuri per otto giorni, durante i quali il marito deve fare cucina.
Più difficile a spiegarsi è la couvade. È noto come in molti paesi appena un figlio è nato, la madre si leva di letto ed è rimpiazzata dal marito, che simula i dolori del parto ed è oggetto di tutte le cure da parte degli amici e parenti. Nel Nuovo-Messico, tra i Lagunero e gli Ahamana, quando una donna partorisce, il marito si mette a letto per sei o sette giorni. Tra gli Indiani della Guiana, dopo la nascita del bambino, il padre resta qualche giorno nell’hamac nudo a ricevere le congratulazioni degli amici e le cure delle donne del vicinato, mentre la puerpera prepara la cucina. Tra gli Abissini [25] dell’America del Sud, dopo il parto, il marito si pone a letto, circondato di cure e costretto a digiunare per un certo tempo. Egual costume fu ritrovato tra i Tartari, da Marco Polo. Strabone (III, 16) ci narra che le donne degli Iberi, quelle dei Celti, dei Traci, degli Sciti, abbandonano il loro letto, appena partorito, al marito, che esse curano. E Diodoro (V, 14) narra che in Corsica il marito, dopo il parto della moglie, faceva la commedia di esser malato per qualche tempo. Pare che nelle provincie baltiche della Russia il costume si sia conservato allo stato di sopravvivenza senza significato, e secondo il Donnat sarebbe ancora in uso nell’isoletta di Marken nel Zuydersée[40].
Nessun dubbio che, come osservò il Letourneau, queste bizzarre cerimonie equivalgano alle nostre dichiarazioni di paternità, fatte agli Uffici di stato civile: che siano insomma un’affermazione della paternità, fatta come potevano popoli rozzi ancora. Ma come può esser nata l’idea di affermare la paternità simulando le doglie del parto? Il parto è anche per la donna selvaggia una crisi in cui essa rischia la propria vita: ora, dato il valore che rappresenta un figlio per i selvaggi, quella crisi interessa anche l’uomo, tanto più che se anche il bambino nasce vivo ma la madre soccombe, tutto è perduto per lui, perchè egli deve abbandonarlo, non potendolo nutrire, come vediamo che in tanti popoli con la madre morta di parto si seppellisce il figlio vivo. Ora è probabile che tale interessamento alle vicende della nascita abbia provocate talora nell’uomo dimostrazioni simpatiche di dolore, specialmente nei casi in cui il parto era difficile: cioè grida, lamenti, urli, e ciò tanto più facilmente per quella facilità al pianto e alle clamorose manifestazioni esteriori dei sentimenti che è propria dell’uomo primitivo[41]: ciò dato, è anche probabile che a poco a poco l’idea della paternità si sia associata alla vista di quegli atti, e che si sia finito per considerare figlio legittimo quello la cui nascita era costata tanti gridi e tanti spasimi al padre; di qui, fissatasi quell’associazione, può esser benissimo venuta l’idea di simulare quegli atti di dolore, anche nei casi in cui non v’era ragione [26] di compierli, sapendo che essi avrebbero svegliati negli altri membri della tribù l’idea della propria paternità affermata sul neonato. Sarebbe insomma questo un simbolo nato e sviluppatosi per commedia. Da quel germe la pantomima della couvade si sarebbe svolta poi nelle forme più svariate e capricciose, che troviamo nei popoli primitivi.
6. È noto come l’adozione sia una pratica assai più diffusa negli stadi primordiali della civiltà che nei successivi[42]. Ora quando un uomo vuole adottare come suo figlio un estraneo, è naturale che lo vesta, lo nutrisca, lo tenga insomma come terrebbe un suo figlio carnale: quindi anche in origine l’idea delle adozioni dovette associarsi a quella di un trattamento figliale e quando si vedeva un uomo mantenere nelle sue case un fanciullo come fosse proprio figlio, considerare questo come adottato. Ora allorchè si volle garantire l’atto dell’adozione, sottraendone la validità ai capricci delle due parti, e fissando con una prova sicura che l’atto era stato veramente compiuto e che quindi adottato e adottante erano ormai costretti a quei doveri che nell’opinione generale l’adozione portava seco, l’idea più immediata fu quella di compire innanzi a testimoni uno di quegli atti, la cui esecuzione era strettamente associata all’idea dell’adozione: per es., vestirlo. Così nell’Europa del Nord, il padre uccideva un bue e con la pelle del piede destro faceva una scarpa che egli calzava e faceva calzare poi all’adottato o legittimato, agli eredi, agli amici[43].
Eguale origine ebbe la cerimonia medioevale di compiere la legittimazione per matrimonio stendendo sul bambino un mantello. Noi la troviamo nei costumi del Beauvoisis[44] e nel diritto tedesco che chiamava questi figli mantelkinder o figli del mantello[45]; e un poeta fiammingo del tredicesimo secolo, Filippo Mouske, ricorda questo uso con i versi:
[27]
Li Duc ki les enfans ama
Gunnor adoncques espousa,
E li fi ki jà furent grant,
Furent entre autres deux en estant
Par dessus le mantiel la mère
Furent fait bial (legittimi) cil trois freres.
Pare che l’uso esistesse anche in Inghilterra: e quando Ruth invoca la sua parentela, perchè Booz, osservando il costume del levirato, la prenda in sposa: «Io sono — gli dice — Ruth; stendi su me il lembo della tua veste; perchè tu sei quello che per consanguineità hai la ragion del riscatto su me»[46].
Talora invece, il simbolo dell’adozione è, più che un simbolo di protezione, un simbolo di dominazione: come tra i Badagas, presso cui il futuro padre passa la gamba sulla testa del fanciullo, che gli viene portato innanzi. Questo simbolo è certamente in rapporto con la natura della patria potestà presso i popoli primitivi, che è spesso una vera padronanza; e fors’anche con quell’altro fatto che presso alcuni popoli, come le Pelli Rosse, le prime adozioni si fecero sui prigionieri di guerra, quando invece di ucciderli, si pensò di far riempire loro i vuoti lasciati dalle battaglie nelle file della popolazione[47].
7. In tempi in cui le città erano asserragliate di mura e una porta robusta poteva sbarrare fortemente l’unica via d’ingresso, un atto naturale e ragionevole, che doveva accompagnare la resa ad un potente, era la consegna delle chiavi. Così a poco a poco l’idea della soggezione e quella della consegna delle chiavi si andarono associando, e bastò l’atto di portare una chiave a un re, a un imperatore, anche se la chiave era puramente fittizia e non proprio quella della città, per risvegliare l’idea della padronanza in chi la riceveva, della soggezione in chi la consegnava. Così il principe di Capua inviò all’imperatore di Costantinopoli le chiavi d’oro della città per riconoscere la supremazia dell’impero sul principato[48]. E come è noto, l’omaggio [28] delle chiavi era una delle forme più usate nel cerimoniale politico del Medio Evo.
Un’altra azione, naturale compagna della resa al nemico, è la consegna dell’arma al vincitore; perchè come potrebbe il vincitore, accettare di lasciar vivo il vinto, se prima non lo vede in condizioni da non potergli più nuocere? Anche quest’atto, per il solito processo d’associazione, diventa un simbolo di soggezione o di intenzioni pacifiche. Tra i Dakotah, in segno di pace, si seppellisce un tomahawk; tra i Brasiliani si fa al nemico un dono di archi e di freccie, e gli Sciti mandarono a Dario, in segno di soggezione, cinque freccie. L’atto può anche valere, come segno di dedizione di se stesso in schiavitù; perchè tra i popoli primitivi lo schiavo è, quasi sempre, un vinto in guerra: così in Africa, quando un nero si fa volontariamente schiavo rompe — in presenza del suo futuro padrone — una lancia[49].
Inversamente, l’atto di consegnare le armi allo schiavo può valere come simbolo della liberazione. Siccome la grande differenza tra l’uomo libero e lo schiavo è che il libero ha armi e lo schiavo no, la liberazione di uno schiavo era sempre seguita dall’acquisto delle armi, che il liberato o riceveva dal padrone o si procurava da sè, perchè altrimenti non sarebbe stato considerato libero: ma, associatesi le sue idee, quando si volle garantire la liberazione dal pericolo dei pentimenti del padrone, la prima idea dovè essere quella di far consegnare dal padrone un’arma allo schiavo, in presenza di testimoni: quell’atto rimaneva documento della sua reale intenzione di sciogliere lo schiavo da ogni vincolo verso se stesso. Ecco spiegarsi quindi l’emancipazione per la spada, per la lancia, per la freccia, in uso presso i Longobardi ed altri popoli germanici.
Un altro atto, naturalmente implicato nella liberazione d’uno schiavo era quello di permettergli di uscire dalla casa e non tornarci più: anzi pensando come erano un tempo asserragliate le porte delle case di cui il padrone custodiva gelosamente le chiavi[50], quello d’aprirgli [29] la porta. Per il solito processo, ecco originarsene la cerimonia inglese di emancipazione, in cui bisognava lasciar aperte le porte della casa[51] e forse anche quella cerimonia longobarda[52] per la quale chi vuol fare fulfree, cioè interamente libero, il servo, lo consegna nelle mani di un secondo, che lo passa ad un terzo, che lo dà ad un quarto, quest’ultimo poi lo porta innanzi ad un quadrivio e gli dice di andare pure ove gli piaccia, quasi a indicare che le vie del mondo sono aperte innanzi a lui. La prima consegna e la scena del quadrivio dovevano essere fatte innanzi all’assemblea.
8. Quando si cambia domicilio, è naturale che tutte quelle operazioni familiari che si facevano nell’antica casa si facciano nella nuova. E anche è naturale che in società poco ordinate (per es., nel Medio Evo) il cambiamento di domicilio sia un atto di nessun significato giuridico, perchè solo può prendere importanza quando la vita giuridica sia discretamente perfezionata. Ora, quando l’idea del domicilio cominciò a sorgere e a entrare come coefficiente nelle formalità giuridiche, il domicilio non essendo ancora stabilito con atti complessi come quelli usati ora (dichiarazioni, registri, uffici appositi), fu provato indirettamente, con formalità più semplici e grossolane, quali le troviamo in uso nel Nivernese: cioè chi voleva cambiar domicilio, spegneva il fuoco alla presenza di persone pubbliche, nel luogo che lasciava, e andava ad accenderlo nella nuova abitazione[53].
9. Talora invece il simbolo sorge per un processo alquanto differente, pur giungendo allo stesso risultato e conservando lo stesso carattere.
Si sa che l’uso primitivo per risolvere i processi è stato il duello. Ma re Alfredo d’Inghilterra, monarca intelligente e di mente superiore ai tempi in cui visse, cercò di sradicare quell’uso. «Chiunque sa, ordina il re, che il proprio nemico si trova nella sua casa, non gli muova guerra prima di avergli domandato giustizia. Se è capace di stringere da presso o di assediare in sua casa il nemico, ve lo tenga sette giorni senza assalirlo, se l’altro non tenta d’uscire. Se dopo sette giorni l’assediato [30] consente a sottomettersi e a rendere le armi, che egli rimanga sette giorni senza essere inquietato e ne sia dato avviso ai suoi parenti ed amici. Ma se l’offeso è di per se stesso impotente, si rivolga all’ealdormann e se l’ealdormann non lo aiuta, al re, prima di battersi[54].»
Noi vediamo qui l’uso del duello mitigarsi, a poco a poco, in una specie di sfida; in una dichiarazione dell’offeso all’offensore ch’egli è disposto a rinunciare al giudizio della spada ove possa trovare in altra maniera soddisfazione: è quella insomma una forma primitiva di intimazione. Ma che forma prende questa intimazione? La forma della minaccia: si cerca cioè d’indurre l’avversario a cedere, facendogli vedere che se non farà ciò spontaneamente, si è risoluti a costringerlo con la forza. Era naturale che dal periodo della giustizia privata e violenta, a quello della giustizia pubblica e pacifica, si dovesse passare per quello stadio: l’uomo, per la legge del minimo sforzo, non trasforma le istituzioni e i costumi se non per minime modificazioni.
Ora questa disposizione del re inglese ci mostra il germe da cui può svilupparsi un simbolo. Supponendo che l’uso di risolvere pacificamente le contese si fosse diffuso e che i duelli privati fossero stati abbandonati, quel blocco ch’era prima una vera minaccia di violenza materiale, a cui poteva seguire il duello, avrebbe continuato a servire come minaccia legale, come forma di citazione, dietro a cui, non più il duello, ma il giudizio sarebbe seguito. Da tutti associandosi quell’idea a quell’atto, non si sarebbe sentito il bisogno di mutarlo; e solo col tempo gli sarebbero state sostituite le più semplici forme di citazioni usate da noi.
Alla luce di questo confronto ecco possibile una spiegazione di alcuni simboli giuridici. Nel diritto romano, la formalità per la denuncia di un’opera nuova, era il lancio d’una pietra contro di essa[55]. Tale formalità si conservò nel mezzogiorno della Francia; specialmente nella Linguadoca, come lo constata un documento del 1407; la pietra era scagliata tre volte, mentre si pronunciava la formola: Je denonce le nouvel oeuvre: e secondo Lauterbach simile formalità si praticò pure in Germania, sino nel secolo XVII.
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In un tempo più antico l’unica forma di denuncia dell’opera nuova dovette essere la sua distruzione violenta compita da chi non voleva che essa sorgesse: quando si cominciò a mitigare il costume, prevalendo l’abitudine di tentare vie pacifiche, si sarà introdotto l’uso di minacciare al padrone della nuova opera di distruggergliela, se non dava ragione al querelante, e la forma della minaccia, come era nel caso precedente il blocco, potè essere in questa lo scagliar pietre. Stabilitosi saldamente l’uso di rimettere al giudice la questione, quell’atto che prima era una minaccia di violenze materiali, prese il significato di un avvertimento e d’una citazione a venire innanzi al giudice, perchè a tale ufficio serviva benissimo e non si sentiva il bisogno di sostituirvi altre forme.
10. Noi vediamo quindi come tutti i simboli di questa classe non contengano nulla di misterioso: non sono che i nostri documenti scritti, le nostre citazioni, ecc., ecc., in una forma meno astratta e più primitiva e semplice. A noi avvezzi alle forme giuridiche nude e aride dei tempi nostri, questi simboli fanno una singolare impressione, quasi di semplice e ingenua poesia: ma si può star sicuri che coloro che praticarono quegli atti non ci sentirono entro poesia più che non ne sentiamo noi nelle nostre formalità. Quei simboli sono caratterizzati dalla minor complessità di associazioni mentali necessarie per intenderli, in confronto alle formalità nostre, e sono perciò spiegati dalla legge del minimo sforzo, dalla tendenza cioè dell’uomo a risolvere le difficoltà che incontra sulla via della civiltà con i modi che costano minor fatica mentale prendendo le soluzioni più ovvie e contentandosene, sinchè per i cresciuti bisogni non siano divenute del tutto inadeguate allo scopo.
[32]
1. La sovrana influenza della legge del minimo sforzo si mostra anche in questi simboli, la cui evoluzione è tutta governata dalla tendenza ad applicare sempre quei processi mentali, che costano la minore fatica, anche se a scapito della chiarezza e della rapidità. Il problema da risolvere, uno dei più difficili a cui l’uomo si sia trovato dinanzi, era questo: costituire determinate associazioni tra certe idee e la sensazione visiva di certi oggetti o figure o segni, in modo che questa potesse ricondurre quelle alla mente o di chi aveva pensata l’idea o di terze persone a cui non si potesse comunicarla con la parola; ora appunto, innanzi alla complessità crescente delle idee da fissare e da comunicare, l’uomo ha cercato di servirsi sempre delle forme di associazione più semplici, anche se per altri rispetti gliene dovevano venire gravissimi guai.
Una forma elementarissima di associazione mentale è quella di una sensazione, di una determinazione, di una idea, che, essendo contemporanee o successive ad un’altra sensazione, si riproducono al ritornare di questa; quindi la sensazione ravvivatrice può servire perfettamente da segno. Quando io, mentre ho una data idea faccio una tacca sopra un bastone, o un nodo nel fazzoletto, stabilisco una associazione tra la vista di quell’intaglio o di quel nodo, in modo che la sensazione mi richiamerà l’idea e ne sarà segno: «Quando io, scrive il Marzolo[56], avendo dimenticato il filo del mio discorso od una qualunque mia intenzione, [33] ripassando pel luogo dove ero allora che avevo quella intenzione, al vedere un dato oggetto, ripiglio il filo od il concetto che avevo: quel dato oggetto ha agito su di me come segno».
Su questa forma di associazioni, così elementari che il cervello che non ne fosse capace sarebbe incapace assolutamente di ragionare, è basato il primo sistema di segni grafici usato dall’uomo. In Guinea i commercianti negri contano, mettendo da parte un piccolo pezzo di legno per ogni unità: uno più grosso per le decine, uno ancor più grosso per le centinaia; i negri dell’Africa si servono di pietruzze per calcolare il tempo; e per sapere quanti giorni hanno lavorato presso un dato padrone, mettono ogni sera una pietruzza in una scatola e una pietruzza di color differente per i giorni di riposo[57]. La parola calcolo viene dal latino calcul = pietruzza. Tra i Chichimequi, i guerrieri facevano una tacca sopra un osso ad ogni nemico che uccidevano per ricordarne il numero[58]. Sino a poco tempo fa, in Abissinia, la capigliatura degli uomini serviva anche di registro, per le imprese di guerra, perchè ogni nemico ucciso dava diritto a portare una treccia[59]. Nella liturgia degli Ebrei, quelle frangie annodate pendenti dal taléd di cui si coprono per pregare, non erano in origine che artifici mnemonici per ricordarsi le parole della preghiera, come si vede dal discorso che Dio tiene a Mosè[60]: «Parla ai figli d’Israele, e di’ loro che mettano delle frangie agli angoli dei loro mantelli, e che vi aggiungano striscie di color di giacinto, perchè vedendoli, si ricordino dei comandi del Signore». Tra gli Indiani del Nord-America gli oratori gettano, man mano che arringano, un oggetto ad ogni periodo del discorso; per es. una scure, una collana, una clava, che, raccolti fanno ricordare l’ordine e i concetti del discorso, ed equivalgono quindi ai resoconti del nostro Parlamento[61]. Ho veduto una donna, che non sapeva scrivere e che era stata costretta per un certo tempo a tenere il conto della lavandaia; essa se ne era cavata benissimo, facendo in un [34] foglio un certo numero di segni, che corrispondevano alle diverse specie di biancheria consegnate.
Sin qui sono questi, quasi tutti, artifizi mnemonici individuali; ma possono diventare segni di comunicazione, quando, a un dato segno, o a un dato oggetto si associno da tutti, per il lungo uso, determinate idee. In un certo senso la treccia-archivio dell’Abissino è già un mezzo di comunicazione, perchè essa non ricorda solo la vittoria a chi la porta, ma anche a chi la vede. Così i capi Tartari adoperavano i khé-mou, bastoncelli tagliati in modo convenzionale e li facevano girare per le orde, ad indicare il numero di cavalli o di uomini che ognuna doveva fornire per una spedizione[62]. I Pelli-Rosse usano collari mnemonici, detti gaionne, garthoua o garsuenda, che indicano varie cose secondo i vari grani che li compongono. Nell’antico Perù si era sviluppata una notevole civiltà senza il sussidio di nessun mezzo di scrittura, nemmeno ideografico; supplivano i quipos, veri registri di corda, in cui il vario colore delle corde, il vario numero e la varia forma dei nodi avevano un particolare valore mnemonico: tutta la complicata amministrazione di un vasto impero, in cui lo Stato regolava ogni cosa, sino i matrimoni dei singoli cittadini, era tenuta con quel mezzo, da speciali dotti, pratici nella difficile arte del quipos; e rilievi statistici sulla popolazione, catasti, liste di soldati, tradizioni giuridiche e religiose, tutto era registrato in quei libri di corda[63]. Eguale sistema si praticava nell’antica China, se vogliamo credere a Confucio, che scrive nell’appendice del Yih-King: «Nella più alta antichità si servivano di cordicelle annodate per l’amministrazione degli affari. Durante le generazioni successive, l’uomo santo, Fouh-hi, le sostituì con la scrittura»[64]. E in tedesco buch significa libro e buche significa faggio, con evidente analogia etimologica; buchstaben = lettere dell’alfabeto, significa propriamente bastoncello (in scandinavo bok-stafir indica ancora la bacchetta su cui si incidono segni misteriosi); segno che i progenitori degli attuali scrittori tedeschi, si servirono anch’essi di quegli umili strumenti, che troviamo in uso presso le nomadi orde tartare.
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Vi sono poi dei segni che hanno un uso più limitato. Così gli Ainos tracciano degli sgorbi sui loro vasi che sono segni di proprietà; e segni di proprietà sono pure le doppie croci o svatica, che i Lapponi imprimono nelle orecchie delle loro renne. Spesso il tatuaggio ha anche questa funzione: tra i Delawares serve come mezzo di riconoscimento; e nell’Australia, quando si fa una adozione, si imprime nella coscia dell’adottato un certo segno detto kohong, che rimane il documento della compiuta adozione.
A questa stessa classe, almeno parzialmente, appartengono i dolmens, i menhirs, i cromleks, dei popoli celti e germanici; i merkls, i gals, i margemaths degli Ebrei e degli Aramei; tutti insomma quei mucchi di roccie o di grossi monoliti che troviamo per il mondo, avanzati a noi da una antichissima età. Questi monumenti, in parte erano tombe (probabilmente di capi) o altari; ma in parte servivano anche a ricordare avvenimenti molto importanti nella vita del popolo. «Quando domani, dice Giosuè ai suoi compagni, dopo aver loro fatto passare il Giordano, quando domani i vostri figli vi domanderanno: Che voglion dir queste pietre? Voi risponderete loro: Le acque del Giordano si sono asciugate innanzi all’arca del Signore al suo passaggio, e perciò furono poste queste pietre a eterno ricordo pei figli d’Israello»[65]. Ra-Yatu fece vedere al missionario Lyth una lunga sfilata di pietre (erano 862) di cui ciascuna ricordava un uomo mangiato da suo padre Ra-Undecunde[66].
Erano quindi quei mucchi di sassi quasi una storia o un archivio litico; da cui derivò la colonna, quando i sassi furono più regolarmente disposti uno sopra l’altro. Noi troviamo la colonna usata a ricordare i defunti tra gli Indiani del Nord-America, e tra i Greci (stele); e come memoria di grandi avvenimenti pubblici tra gli Egiziani (obelischi), ma qui con l’innesto ulteriore della scrittura, tra i Romani (colonna Traiana) e anche nei popoli moderni: Napoleone quando drizzò la colonna Vendôme in memoria delle sue vittorie, ritornava a un costume, che era stato comune nei tempi in cui la scrittura era sconosciuta.
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Dalla colonna poi si sviluppò forse la statua, come almeno farebbero credere le colonne degli Indiani d’America. Alcune sono liscie, altre portano sopra disegnato l’animale da cui l’individuo era nominato o una rozza figura umana; altre infine portano queste stesse figure scolpite: onde è legittimo supporre, che si cominciasse prima a drizzare nude colonne in memoria di un uomo, poi che che vi si disegnasse sopra la sua figura, e che poi la si scolpisse. Quindi la statua sarebbe emersa a poco a poco, per piccole modificazioni, dal tronco informe della colonna.
2. Affine a questa categoria di segni è una classe di simboli giuridici; tutti cioè quegli oggetti materiali (spada, bastone, bandiera, ecc.), che vediamo intervenire nei contratti e in generale negli affari giuridici, sia presso i popoli primitivi sia nel Medio Evo e sopratutto nelle cerimonie delle investiture.
Al Dahomey ogni famiglia ha un suo bastone speciale, la cui falsificazione da parte di un estraneo può esser punita fino con la morte e che serve per le comunicazioni tra le varie famiglie: così quando si manda un messaggio, si ha cura di provveder sempre di un bastone il messaggero[67]. Non è questo che un mezzo primitivo di comunicazione; come noi abbiamo associata l’idea di una data persona, a quella della sua scrittura e della sua firma, di modo che, se ci si presenta come inviato di lei uno sconosciuto recando una lettera sua, ci fidiamo, così in quel popolo si associa l’idea di una data famiglia a quella del suo bastone e la vista del bastone tra le mani dell’inviato è documento, che inganno non c’è[68]. Il processo associativo è lo stesso che nei casi precedenti, solo che l’oggetto, invece di rappresentare un gruppo d’idee, rappresenta un gruppo di persone. Il bastone è insomma una forma più primitiva della lettera commendatizia o del sigillo particolare.
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Ora, se un dato oggetto diventa il distintivo di una data autorità[69], si formerà una analoga associazione tra la vista dell’oggetto e l’idea dell’autorità: e l’oggetto potrà avere nei rapporti tra sovrano e sudditi, quello stesso ufficio, che ha tra i privati. Così al Dahomey, quando il re affida a un ministro una missione lontana, gli consegna un bastone reale, simile al suo, che l’incaricato porta dovunque con sè[70], certo in prova della verità della missione ricevuta, e che quindi equivale alle credenziali rilasciate dal re ai nostri ambasciatori presso le Corti straniere. Così pure la consegna del distintivo dell’autorità varrà come documento della cessione fatta dell’autorità stessa, di quella cessione che oggi noi proveremmo con scritti; ecco perchè Gontrano, re dei Franchi, tra cui il distintivo dell’autorità reale era la lancia, nell’abdicare in favore del nipote Childeberto, gli consegna una lancia dicendogli: Ecco il segno che io ti ho dato il mio regno[71]. E Alessandro designò a suo successore Perdicca, consegnandogli al letto di morte l’anello.
Nè quelle consegne di spade, di stendardi, ecc., che noi troviamo nel Medio Evo, nelle investiture dei regni, dei ducati, ecc., ecc., hanno altro significato; sono cioè una forma primitiva di documentazione della concessione fatta[72]. Così Clemente IV investì Carlo d’Angiò [38] del reame di Sicilia con uno stendardo, e con lo stesso mezzo fu investito dell’Inghilterra Guglielmo il Conquistatore, come lo dice un antico poeta normanno, Roberto Wace:
Un gonfalon li envoya
Mont precious et cher et bel
. . . . . . . . . . . . .
A ces enseignes li manda
Et de par Dieu li otroïa
Que Angleterre conquersist
Et de Saint-Pierre le tensist.
E in generale per spada o per bandiera si faceva l’investitura dei regni, delle provincie, dei ducati, delle città, ecc., ecc.
In questa stessa classe rientrano poi altri simboli giuridici, di carattere però più generale. Come oggi chi salisse il Vesuvio e volesse provare a degli increduli di esserci andato realmente, porterebbe di lassù una manciata di lapilli o un pezzo di lava, così i messi del tribunale vehmico, che potevano portare le citazioni anche di notte, l’affiggevano alla porta della abitazione del citato; e perchè questi non negasse di averla avuta, portavano via tre punte dalla barriera circondante la casa[73]. Era una forma rudimentale di ricevuta. Così pure si ricava da Joinville che i baroni scozzesi, quando si recavano sulla montagna (mons placiti) per prender parte al giudizio delle cause, o per discutere gli affari pubblici, o per assistere all’incoronamento del re, portavano una zolla di terra dai loro possessi e la gettavano sul luogo dell’assemblea; siccome il diritto di partecipare [39] all’adunanza dipendeva dalla proprietà fondiaria[74], quella zolla di terra valeva per essi come documento del loro diritto a parteciparvi; equivaleva, in una forma rozza, alla medaglia del Deputato o del Senatore, che attestano il suo diritto di prender parte alle sedute. Nel Medio Evo troviamo pure che in certe vendite si usava come simbolo una corda a parecchi nodi, fatti dalle parti o dai testimoni[75]: era certo quello un vero quipos, con cui il tenore del contratto era scritto e fissato nella corda e serbato come prova. Ed eguale significato ha la tradizione di una eredità fatta nel Medio Evo con la consegna del berretto: il berretto costituiva una rozza prova che si era legittimamente ricevuta l’eredità.
3. Il fatto che nel Perù si sviluppò una civiltà senza nemmeno la scrittura pictografica, è una prova che la scrittura puramente mnemonica, dovè precedere anche la pictografia. Ciò concorda perfettamente con la legge del minimo sforzo; perchè fu prima adottato quel sistema di segni, che costava minor fatica. Si sa che un’idea non è mai uno stato di coscienza molto nitido; specialmente quando sia un poco complessa, noi la sentiamo nel suo insieme, senza avvertire bene tutti i singoli stati di coscienza (immagini, idee, ecc.), di cui si compone: tanto è vero, che sempre accade anche a noi, avvezzi da tanto tempo a trattar lo strumento della scrittura, che, mentre abbiamo chiara l’idea nella mente, dobbiamo faticare spesso dolorosamente per esporla chiaramente con scritti, perchè allora bisogna analizzare tutti gli stati di coscienza che compongono l’idea e rafforzare quelli che sono avvertiti confusamente; vedere quali sono necessari per una espressione chiara, e quali si possono tralasciare. Questo lavoro invece è inutile con quei primitivi sistemi mnemonici di cui parlammo; l’idea, così confusa com’è, si associa alla vista di quella tal forma di nodo o di intaglio, in blocco, e in blocco risorge, con il corteggio di tutti i suoi stati di coscienza secondari e meno avvertiti. Ora, anche nella scrittura pictografica è necessario quel lavoro di analisi sugli stati di coscienza molteplici che compongono [40] un’idea; perchè bisogna scegliere quelle che sono più importanti alla espressione del concetto: quindi è un sistema più faticoso dei sistemi puramente mnemonici[76].
E che la pictografia (cioè la scrittura a disegni) sia stata una fase generale nell’evoluzione della scrittura, lo dimostra il fatto che non solo la troviamo presso moltissimi selvaggi, ma che una volta esistè anche presso gli antenati dei popoli civili, come lo dimostrano le etimologie. Il semitico ktab, il greco γρᾴφω, il latino scribo, il sanscrito lik, significano dipingere, incidere, scrivere; in arabo raqan = scrittura, in ebraico raqan = ornare con colori. Così pure in neozelandese tu = battere, incidere, cavare, e tui = scrivere; titite in malese = macchia; in tagetico = scrittura. L’inglese write = scrivere, deriva da una radice teutonica writ, che significa tagliare leggermente, marcare, incidere. I grammatici chinesi chiamano i primitivi caratteri della scrittura Siâng Kîng o immagini[77].
Questo stadio della scrittura si connette con un fenomeno psichico, che lo rese possibile: ed è la maggior ricchezza in immagini e la maggior povertà in idee astratte del cervello dell’uomo primitivo. Già il Romanes osservò che gli animali pensano per imagini[78]: e per immagini certo pensano i selvaggi assai più che gli uomini civili. Se [41] ne trova la prova palmare nel linguaggio dei popoli primitivi o ancor non molto civili, che manca di espressioni astratte e generali. «Nel linguaggio delle razze inferiori, scrive lo Spencer, i progressi dell’astrazione e della generalizzazione sono così piccoli che, mentre ci sono parole per le diverse specie di alberi, manca un nome che indichi l’albero in generale, e che i Damaras, i quali danno un nome particolare a ogni rigagnolo del ruscello, non ne danno nessuno alla riviera in complesso. Di più ancora, i Cheroquis hanno tredici verbi differenti per esprimere l’atto di lavare le differenti parti del corpo, e non ne hanno nessuno per l’atto di lavare distinto dalla parte o dalla cosa lavata».[79] Cioè, in altre parole, essi non hanno ancora nessuno stato di coscienza che corrisponda all’idea di albero o di lavare in sè, ma solo immagini che rappresentano loro ora quella specie di alberi, ora quell’altra; ora, l’atteggiamento che prende l’uomo nel lavarsi una data parte, ora quell’altro. Così pure noi troviamo spesso l’azione espressa nelle lingue meno perfette dal suo strumento: così in arabo ied = mano, potenza, autorità; in turco ain = occhio, spione, guardiano; in sanscrito muszca = testicoli e virtù: cioè non si è ancora formato uno stato di coscienza corrispondente all’idea dell’azione in sè, ma ancora rimane in sua vece l’imagine dello strumento che più spesso la produce. Talora anche l’azione è espressa e quasi direi dipinta da uno degli atteggiamenti che l’uomo deve assumere per compirla: così in persiano Iele = curvatura, offerta, preghiera, sacrificio; alle isole Marchesi, uku = abbassar la testa ed entrare in casa; nella lingua dei Vai, bóro dón = scuoter le mani ed essere allegro; bóro dón fési koro propriamente = scuoter le mani sopra qualche cosa, essere allegro di qualche cosa; da ka = sviare la bocca, non aver nulla a fare con una cosa; in australiano, tohu = segno fatto col dito della mano, idea, prova[80]. Cioè non esiste ancora uno stato di coscienza corrispondente all’idea astratta di preghiera, gioia, disgusto, ecc., ma al suo posto esiste invece l’imagine di un uomo che [42] si piega a pregare, che batte le mani di gioia, che svia per disprezzo la faccia, ecc. Si potrebbe chiamare questo il periodo della pictologia.
Si capisce quindi come, abbondando le imagini nel cervello dell’uomo primitivo, egli abbia potuto fare della pictografia un intero periodo della storia della scrittura. Costava a lui poca fatica trovare il disegno da eseguirsi, mentre ne costerebbe molta a noi, per cui tante idee non hanno più per base l’imagine[81]. E connessa con il periodo della pictografia e della pictologia è perciò quella concreta nomenclatura giuridica che troviamo nei diritti primitivi. Tale la manus che nel diritto romano esprimeva l’autorità (per es., quella del marito sulla moglie), perchè il primo strumento di potenza fu il pugno e dal pugno vennero ai deboli le prime esperienze della forza altrui; la manus ecclesiae del diritto medioevale; le espressioni di mediae, inferioris, infimae manus, che pure nel diritto medioevale indicavano la condizione delle persone; e l’espressione dell’antico Coutumier de Normandie, che proibisce al creditore di arrestare il debitore o sequestrare le sue cose, se non par la main à la justice du roi. Nel diritto tedesco troviamo invece il Mund, la bocca, che esprime l’autorità maritale, paternale e politica, perchè la bocca dà i comandi; onde vennero nel latino medioevale le parole mundium, mundoaldus, mundibardus: e probabilmente nell’espressione della Legge Salica, riguardante l’esiliato, che è dichiarato dal re extra sermonem suum, sermo è la traduzione latina di mund, per cui l’esiliato era dichiarato fuori della bocca, cioè dell’autorità reale.
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4. Ma non tutto si può rappresentare con disegni, anche quando non si hanno a comunicare idee astratte e difficilmente riducibili a figura: alcuni oggetti sono infatti di una complessità o di una grossezza, che senza una grande abilità al disegno, non si possono rappresentare. Ora, per superare una simile difficoltà, l’uomo avrebbe potuto cercare di perfezionare il disegno, sino a renderlo capace di rappresentare tutto, come è il disegno dei nostri grandi pittori; ma gli sarebbe stato necessario per ciò uno sforzo intenso e doloroso: per questo, obbedendo alla legge del minimo sforzo, egli preferì battere una via più piana, che gli si offriva da lato. Ogni oggetto risveglia naturalmente, senza nessuno sforzo, per associazione, le imagini di altri oggetti, sia che abbiano con quello qualche somiglianza esteriore (la così detta associazione per somiglianza: così un’acqua che sprazza al sole lampi di luce, ricorda un pezzo di acciaio o uno specchio); sia che mentalmente vi vengano associati, perchè di solito sono considerati come appartenenti alla stessa categoria (così è facile un’associazione tra l’oro e l’argento e gli altri metalli preziosi, appunto perchè appartenenti tutti a una stessa classe di oggetti, che nella nostra mente rappresenta una categoria ben distinta fra gli altri).
Per la scrittura a disegno si sfruttarono precisamente queste naturali associazioni: vale a dire, quando un oggetto di difficile rappresentazione richiamava l’imagine di altri, di più agevole disegno, si disegnarono due di questi, perchè con il loro concorso determinassero il vero significato della complessa rappresentazione. Così nell’antica scrittura egiziana sete è espresso da un vitello che corre e dal segno dell’acqua; argento dal crogiuolo (segno dell’oro) e da una cipolla bianca (segno del bianco: quindi argento = oro bianco). Nella scrittura cuneiforme, già passata dal geroglifico figurativo all’ideogramma, cielo è scritto con gli ideogrammi di volta e di stella (= la volta delle stelle); argento con gli ideogrammi di metallo e di splendore (= metallo splendente); dominazione con gli ideogrammi di contrada e di paura (= la paura delle regioni, bel documento sul carattere feroce di quei governi). Nel chinese, in cui gli ideogrammi sono già il prodotto di una conglomerazione di geroglifici, l’ideogramma di luce risulta dalla fusione dei geroglifici di sole e [44] di luna; quello di eremita, dalla fusione dei geroglifici di uomo e di montagna (= l’uomo della montagna)[82].
È insomma, come si vede, una vera metafora scritta, che certo nessuno sosterrà essere il frutto di una vivace fantasia; in cui è impossibile vedere altro, che un ripiego naturale dell’uomo primitivo, per rimediare con la minima fatica, alla povertà dei suoi mezzi di espressione e di comunicazione grafica. Ma allora bisogna anche ammettere che quel fenomeno che perfettamente gli corrisponde nel linguaggio, cioè le brillanti metafore, di cui sono ingemmate tutte le scritture primitive e financo le leggi, e che a noi, certo per atavismo, piacciono tanto, non hanno un’origine differente.
Anzitutto bisogna osservare che la metafora, che noi crediamo oggi caratteristica della sbrigliata fantasia dei poeti, è, in origine, un processo normale per la formazione delle parole, un mezzo della nomenclatura primitiva. Una quantità di parole non sono che ideogrammi parlati, che metafore, i cui termini si sono fusi: così in sanscrito Karasàkhà significa dito e propriamente ramo (sàkha) della mano (kara); in persiano raggi di sole = nizehi atescin, propriamente = lancie di fuoco; in arabo cielo = nehdi mina, propriamente = cuna di cristallo; oppure = quasrì mina = castello di cristallo; in ungherese occhiali = papaszem = occhi di prete; in polinesico toro = oggetto in posizione analoga alla mano che si stende, bove = puaátoro = porco (puaà) che si stende (dal modo con cui sporge la testa)[83].
Qual differenza passa tra queste espressioni metaforiche e quegli ideogrammi o geroglifici complessi del chinese, dell’egiziano, del cuneiforme? Solo questa: mentre nel caso della scrittura la difficoltà da superare è l’inesperienza della mano a tracciare figure complesse, qui è invece quella di creare una parola nuova, creazione anche questa, che come tutte le altre, grandi e piccole, esige uno sforzo e una fatica. Invece le associazioni di due o più imagini intorno a una sensazione [45] presente, si formano spontaneamente, senza o con minimo sforzo; così la vista del cielo poteva facilmente richiamare le imagini del castello e del cristallo. Per la legge del minimo sforzo questa via fu preferita, perchè più facile, proprio come il corso d’acqua, incontrando un macigno, non lo sormonta, ma si biforca e passa oltre, abbracciandolo alla base.
Le imagini che noi troviamo seminate a piene mani nei libri primitivi, anche in quelli in cui in seguito l’aridità dello stile fu un pregio cercato, come le leggi, non possono avere altra origine che la povertà dei mezzi d’espressione, per cui pochi segni devono servire a esprimere tutte le idee: solo che i termini non si fusero, ma rimasero liberi e la metafora non passò nel linguaggio usuale, ma rimase nei libri. Così nei costumi di Mons, di Tournay, di Hainaut, la soggezione del figlio al padre era detta «être en pain»; lo stato di emancipazione «être hors de pain». A Bearn la servitù di pascolo era chiamata servitude du dent. Nell’antico diritto tedesco, per indicare che i beni della Chiesa sono inalienabili, si diceva che avevano un dente di ferro: Kirchengut hat eisernen Zahn. Il diritto consuetudinario francese, per esprimere il vantaggio del signore che ha presi i beni del vassallo, contro il vassallo che muove opposizione al sequestro, dice che un seigneur de paille, de feurre ou beurre vainc et mange un vassal d’acier. Die Luft macht leibeigen, l’aria rende schiavo, diceva il diritto antico tedesco, per indicare i paesi, dove la sola residenza trasmutava in servo l’uomo libero; e la legge visigota, per dire che un fratello diventa mercante, mentre l’altro rimane a casa, così si esprime: «L’uno dei fratelli fa il commercio, mentre l’altro rimane seduto in casa, presso la cenere del focolare paterno». Basterà infine riportare alcuni brani della lunga formola d’esilio del tribunale vehmico: «Noi ti giudichiamo e ti condanniamo, noi ti mettiamo fuori d’ogni legge. Noi dichiariamo vedova la tua sposa, orfanelli i tuoi figli... Noi diamo... il tuo corpo e la tua carne alle bestie dei boschi, agli uccelli dell’aria, ai pesci dell’acqua... Noi ti rimandiamo sulle quattro vie del mondo»[84]. Non sembra uno squarcio di Victor Hugo?
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Talora la metafora è un artificio meno faticoso, non per esprimere idee a cui mancano le parole, ma per spiegare fatti, la cui vera cagione è ardua a trovarsi. Cercar le cause di tutti quei fenomeni, specialmente dei naturali, che lo attorniavano, sarebbe stata enorme fatica per l’uomo primitivo: per questo egli si è accontentato di sostituire alle spiegazioni quelle associazioni di idee o di imagini che i fenomeni risvegliavano e che costavano pochissima fatica; e così la metafora riuscì un eccellente ripiego per sottrarsi al martirio di dover pensare. Cercare la causa della pioggia era arduo; ma quei rovesci d’acqua suscitavano facilmente l’idea di qualcuno che la versasse: così nell’America settentrionale si diceva che la pioggia era l’effelto della rottura di un vaso d’acqua, avvenuto in cielo per la lite tra un fanciullo e una fanciulla; i Greci e i Romani dicevano che le Hyadi, ninfe del cielo, versavano dalle loro urne la pioggia; gli Egiziani, che le pioggie erano lagrime d’Iside. Così la tempesta suggerì specialmente per associazione ai suoni del vento, che ricordano il muggito, l’idea di un toro che si scatena; era evidentemente più facile creare questa metafora, che indagare le cause della tempesta. Insomma, anche sotto questo aspetto la metafora apparisce un effetto della legge del minimo sforzo: è un artificio per faticar meno[85].
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Tutto ciò è così vero, che anche noi, quando ci troviamo a dover dar nome a qualche oggetto o fenomeno nuovo usiamo metafore; e che una fastidiosa gramigna della scienza sono appunto ancor oggi le metafore, che molto spesso si mettono al posto delle idee; che servono di soffice guanciale alla poltroneria dei pensatori non originali; e contro cui è più difficile talora combattere, che contro le teorie sbagliate, ma dedotte da osservazione di fatti.
Si vede quindi come non solo il ritmo e la rima della poesia moderna sia atavico; ma anche il suo contenuto, cioè l’imagine, che per tutti i poeti, come per gli uomini primitivi, è quasi la forma normale di espressione, salvo per pochi, ad es. Goethe, che come notò il Lewes, inventò pochissime metafore: mancava in lui cioè l’atavismo dell’imagine. Se oggi noi usiamo meno metafore che i selvaggi, ciò accade perchè abbiamo per un gran numero di idee espressioni proprie, così strettamente associate all’idea, che il loro risveglio è più pronto e diretto che non quello delle associazioni concomitanti, che costituirebbero la metafora: quindi l’evoluzione dello stile non tende all’immaginosità, ma alla espressione reale delle idee, e l’ideale sarebbe di esprimere ogni pensiero con parole sue proprie, creando uno stile oggettivo, direi quasi, come la realtà.
5. Uno svolgimento ulteriore e più complesso di questi simboli è quello stadio che nella scrittura si chiama del rebus. Per significare una cosa o una parola, che difficilmente sarebbe stata resa da una figura, si pone o la figura di un oggetto o l’oggetto stesso, il cui nome sia eguale o simile, fonologicamente, a quello della cosa o parola che si vuole esprimere. Ci avviciniamo quindi alla scrittura, perchè siamo già nel campo della rappresentazione dei suoni; e ci troviamo in presenza di una catena più complicata di associazioni: la vista dell’oggetto o della figura ne richiama il nome; il nome, per la grande affinità del suono, richiama la parola affine che si voleva rappresentare; e la parola infine ci dà l’imagine o l’idea.
Gli Ateniesi per ricordare Leena, amica di Aristogitone, siccome Leena significa anche Leonessa, gli eressero per monumento una leonessa di bronzo[86]. Il monumento innalzato dai Greci alle Termopili, [48] in onore di Leonida, fu un leone; non certo perchè il leone ne simboleggiasse il valore, ma per l’affinità di suono tra le parole Λέον e Λεωνίδας[87]. Tra i negri della costa degli schiavi i simboli del dio della folgore sono una clava, un casse-tête di legno durissimo e un bastone[88]; ora siccome quel dio è chiamato Chango, parola composta di chan = colpo e di go = stordire, è probabilissimo che quegli strumenti siano diventati simboli del dio, perchè il nome del dio implicava l’idea del battere e del colpire. Simile origine è pure probabile che avessero il culto della lancia in uso, secondo Erodoto, tra gli Sciti, e che ritroviamo pure presso gli antichi Sabini (quir), e il culto del giavellotto presso i Mongoli e gli Unni[89]; noi possiamo infatti sospettare legittimamente che, trattandosi di popoli militari, i loro dei fossero chiamati con nomi alludenti alla loro ferocia guerresca, che potevano essere simili ai nomi dati alle armi, e che quindi la lancia o il giavellotto non fossero che una rozza imagine del dio, che fece credere, per quella tendenza umana che analizzeremo, a venerare il segno sensibile invece che la cosa significata, a un culto di quegli oggetti materiali.
Analoga origine hanno quelle figure di animali e di piante, che tra gli Indiani del Nord-America, tra gli antichi Galli, Scozzesi, Tedeschi, fregiavano le bandiere dei clan delle tribù, le colonne funerarie e famigliari; e talora anche la pelle degli individui, in complicati tatuaggi. Siccome ogni individuo, famiglia, o clan ha il nome di un animale o d’una pianta, quelle figure non sono che la trascrizione del nome, come si faceva in quello stadio della scrittura. «Tra gli Algonquini dell’America del Nord, scrive il Tylor[90], l’orso, il lupo, la tartaruga, il daino, la lepre, indicavano altrettanti clan e ogni membro portava anche lui il nome di orso, di lupo ed era rappresentato sotto questa forma nei geroglifici indigeni».
Nella scrittura propriamente detta questo periodo segnò il primo passo verso il fonetismo. La scrittura antica messicana si era fissata a tal punto; così, quando i missionari vollero scrivere in caratteri [49] messicani il testo latino del Pater noster, il segno di Pater fu una piccola bandiera che serviva ad indicare il numero venti, il cui nome era pantli, il segno di noster fu un fico d’india ch’era detto nochtli. In egiziano il simbolo composto dal segno di cielo e dal segno di vaso indicava la nube ch’era detta tahen: ma tahen significava anche bronzo, quindi per scrivere bronzo si usò il segno di nube. In alcuni manoscritti del Sachsenspiegel in cui troviamo una mescolanza di scrittura e di pictografia, l’eredità è indicata con una spiga per l’affinità tra il suono öehre (spiga) e il suono erbe (eredità)[91]. Talora due figure si combinano a indicare una sola parola, ciascuna rappresentando una parte dei suoni, che compongono la parola: così in messicano amen fu scritto aggiungendo il segno di acqua (atl, radice a) a quello della pianta agave (metl). «Le occasioni, scrive il Marzolo, di tale uso incompetente del disegno sono tanto più ovvie quanto inferiore è il grado di civiltà di un popolo: 1º per le molte nozioni in cui si prendono allora le parole; 2º per la ignoranza dei parlanti, per cui le omofonie accidentali ai loro orecchi si moltiplicano. Ognuno può accertarsi di ciò sulle scritture degli idioti dove trovansi continui coaliti di particelle coi temi, ed al contrario evulsioni di parti integranti di quelli, perchè cioè non conoscono i limiti sonori delle singole parole».
6. Ancora un passo e la scrittura alfabetica sarà, dopo un lungo e tortuoso cammino, trovata. Già nel periodo del rebus le figure non rappresentano più un oggetto, ma un suono, che da solo o in combinazione con altri, richiama un’idea o un’immagine. Naturalmente le figure che si potevano usare con questo ufficio fonetico-rappresentativo, erano infinite, come sono infinite le analogie accidentali dei suoni: ma se tra quelle figure un certo numero ebbero occasione di ripetersi più frequentemente e si fissarono nell’uso, poterono associarsi tanto l’immagine di quei suoni da poterli risvegliare immediatamente senza più riguardo al disegno dell’oggetto che rappresentavano, e quindi, con il tempo, anche alterare la propria forma: trasformarsi quindi in vere note vocali. Non è presupponibile che l’uomo si mettesse, sia pure quando era già arrivato al periodo del rebus, [50] a inventare deliberatamente i segni di ciascun suono perchè avrebbe dovuto compiere uno sforzo troppo arduo per lui; più probabile è invece che fissandosi l’uso del rebus su certi segni speciali, questi acquistassero la facoltà di risvegliare l’immagine del suono, indipendentemente dalla loro figura allusiva ad un soggetto di suono simile a quello che si voleva rappresentare: il problema sta quindi nel determinare quali furono i segni il cui uso più frequente li trasformò così ai segni alfabetici. Secondo la grandiosa ipotesi del Marzolo, furono i disegni delle costellazioni o meglio i disegni che rappresentavano i nomi dati alle costellazioni (toro, porta, ecc., ecc.), che l’uomo doveva avere molto in uso perchè sugli astri regolava mille atti della sua vita: «Un interesse sopra tutti gli altri eminenti doveva aver deciso, egli scrive, di quella scelta che si fece una volta per sempre... Era la dottrina adunata nella contemplazione del cielo da tante età che erano precedute, la storia dello spettacolo più sublime spiegato agli occhi dell’uomo e d’onde egli implorava la norma alle sue opere, il consiglio ad uscir con le mandre, a spargere la sementa, a uscir con la carovana, a spiegar la vela, a unirsi alle caccie e alle pesche, o il responso sul numero dei giorni a starsi ancora neghittoso, il principio delle sue paure e delle sue speranze, i campi dove i suoi dei gli si facevano vedere viventi e operosi, e quegli spazi che furono il primo loro tempio»[92].
È facile vedere come la scrittura alfabetica sia, di tutti i mezzi di comunicazione che l’uomo adopera, il più faticoso e il più complicato. Anzitutto l’associazione per cui noi da una serie di lettere ricaviamo il suono di una parola è artificiale, stabilita con l’esercizio, perchè nessun rapporto intimo passa tra quel dato segno grafico e quel dato suono, e non è naturale, come quella per cui dalla figura d’un dato oggetto ne ricaviamo l’immagine: di più, ciò che è di maggiore importanza, è un’associazione complicatissima di sensazioni ottiche con immagini acustiche e d’immagini acustiche con altre immagini e idee, perchè [51] per leggere noi dobbiamo saper associare alla vista di un certo numero di lettere l’immagine di dati suoni, e ricavata così dai segni grafici la immagine acustica della parola, ce ne serviamo come della parola udita associando ad essa le idee. Complessità di funzioni che è dimostrata anche dalla fisiologia, perchè un centro apposito è probabilmente adibito alla funzione della lettura, come lo provano i malati di cecità verbale, cioè quelli che perdono il senso della vista soltanto per i segni grafici e — mentre vedono persone, cose, oggetti, ecc. — non riconoscono più le lettere scritte o stampate.
Inoltre, la scrittura non solo è un mezzo di comunicazione faticoso, ma per la lunga strada di molteplici associazioni che devono percorrere i segni prima di giungere al loro termine, non riesce a dare che molto pallide le immagini delle cose e non serve bene che a dare le idee generali ed astratte. Chi non sa in quali sforzi s’esauriscono gli scrittori cosidetti coloristi, che vogliono appunto con la parola suscitare immagini di colori, di forme e quasi rivaleggiare con la pittura? Giulio De Goncourt si uccise in questa lotta con la parola, a cui voleva strappare forse più luce di quello ch’essa poteva dare, anche nelle mani di un grandissimo artista. Ecco perchè l’antico sistema della pictografia, meno faticoso e più dinamogeno, resta ancora in piena civiltà benchè noi non lo sospettiamo; resta nei libri e giornali illustrati, che non sono se non una mescolanza di pictografia e di scrittura e che tanto successo hanno in confronto ai libri senza figure; resta nelle insegne delle botteghe, resta, anzi ha un nuovo e inaspettato trionfo nella réclame che è fatta quasi tutta a figure, dalla piccola alla grande, da quella dei serragli ambulanti che portano scombiccherati sulle tele leoni e serpenti, a quella delle grandi case commerciali che riempiono di vari disegni i loro avvisi sesquipedali. Si può dire che il gran mezzo di comunicazione, specialmente con la folla, sia ancora la pictografia; e che quando noi vogliamo imprimere fortemente un’idea in una moltitudine, riprendiamo ancora, perfezionata nella tecnica, quella che fu la scrittura dell’uomo primitivo.
[52]
1. Che alcuni simboli giuridici, come la simulazione del ratto nella cerimonia nuziale di tanti popoli e la pantomima del duello nel processo romano, siano avanzi di un passato, in cui la sposa si conquistava e la ragione e il torto si spartivano con la spada, si è pensato da molti. Ma nessuno ha cercato di trovare una ragione naturale di questa sopravvivenza, che è pure un fenomeno strano e meritevole di esplicazioni. Dire che la pantomima del ratto e del duello sono sopravvivenze, è quasi dir nulla, se non si spiega come quegli avanzi sopravvissero.
Bisogna aver presente la legge del misoneismo, scoperta dal Lombroso. Una idea o un sentimento nuovo durano fatica a formarsi nel cervello dell’uomo, perchè essi devono farsi largo framezzo e talora contro le idee e i sentimenti già esistenti, ciò che esige uno sforzo e una fatica, da cui l’uomo rifugge: perciò l’uomo è intimamente conservatore e spesso, quando le cose sono cambiate profondamente intorno a lui, egli continua a considerarle con le idee che aveva del loro stato precedente e non le crede diverse. Come certi pazzi se per primo oggetto incontrano la mattina una donna vedono a tutte le persone per tutta la giornata la faccia di quella donna, così quando l’uomo si è formata, di un dato fenomeno, una certa idea, mantiene quella idea ancora per un lungo tempo, dopochè il fenomeno si è totalmente cambiato: lo vede cioè quale era prima, benchè sia tutto diverso. Il fenomeno fu stupendamente descritto da Enrico S. Maine, sopra un caso particolare: sull’immobilità in cui per lungo tempo [53] giacque l’idea di associazione, ristretta alle sole associazioni familiari, quando già nuove forme di associazione si producevano. «Le relazioni da uomo a uomo — egli scrive — si riassumono tutte allora (nei primordi della civiltà) nelle relazioni di parentela: chi non è parente, è allora, per presunzione assoluta, schiavo o nemico. A poco a poco questa presunzione divenne assurda nel fatto; perchè a poco a poco, uomini non legati da parentela di sangue, contrassero relazioni amichevoli di mutua tolleranza ed aiuto. Ma nessuna idea esattamente corrispondente al nuovo stato di cose si produsse nelle menti primitive; e non si inventò nessuna fraseologia per esprimerla. Si parlò dei nuovi membri di ogni gruppo, come fossero apparentati, e come tali furono considerati e trattati. Le idee erano così poco cambiate, che i sentimenti e anche le passioni che nascono dalla parentela naturale ripullularono con forza straordinaria nella parentela fittizia»[93]. Così fu che in India e in Irlanda fino i rapporti tra scolaro e maestro furono tanto vivacemente concepiti e sentiti come vincoli di parentela da stabilire in certi casi il diritto di successione legittima.
La storia della Roma primitiva ce ne porge un altro esempio. Nella Roma antica — come notò finamente il Mommsen, ma senza darne una spiegazione — quando al governo vitalizio dei re, si sostituì il governo annuale dei pretori (primo nome dei consoli), non si formò subito una idea nuova corrispondente alla nuova autorità creata, ma rimase l’antica idea dell’autorità reale per un pezzo ancora, e il pretore fu considerato come un re. Rimase anzi quella idea così vivamente che tutti i poteri del re rimasero al pretore, anche quelli che contrastavano con l’annualità del comando: il re non poteva esser deposto, e così nemmeno il pretore, che si doveva deporre da sè e, se non lo faceva, incorreva certo in una responsabilità morale e nel biasimo del pubblico, ma un rimedio legale contro di lui mancava. Il re eleggeva morendo il suo successore; e tale potere rimase anche al pretore, sebbene si fosse introdotto il sistema della elezione nei comizi, perchè il pretore aveva diritto di escludere quelli che voleva dal numero dei candidati e di annullare i voti dei candidati, che [54] non gli piacevano. Solo più tardi si formò una idea logica e concorde in tutte le sue parti della potestà consolare.
Si vede così come le idee non si formano che lentamente nel cervello umano sotto la lenta suggestione dei fatti, e come il pensiero dell’uomo segua tardo il più rapido trasformarsi delle cose dintorno a lui. Rompere le serie di associazioni di idee e di sentimenti già formate e costituite saldamente, per sostituirvi alle antiche nuove idee e sentimenti, ripugna all’uomo; onde anche quando egli può giungere a compiere la sostituzione, non vi giunge di un salto, ma a poco a poco. Così accade che egli spesso a furia di piccole e successive modificazioni trasforma radicalmente una istituzione, ma l’idea che egli aveva dell’antica istituzione permane, onde sorge quella strana contraddizione, che notammo nel caso delle associazioni familiari e dei poteri reali a Roma, e per cui il pensiero dell’uomo rimane indietro e non capisce nel suo complesso ciò che esso stesso ha a poco a poco creato.
2. Anche oggi, quando noi vogliamo affermare energicamente il nostro diritto di proprietà sopra una cosa, anche lontana o non materiale, noi tendiamo il braccio (quasi sempre il destro), come per afferrarla. È questo certamente un gesto ereditato da antichissimo tempo, dai tempi cioè in cui la proprietà si acquistava con la caccia, con la pesca, con la raccolta dei frutti delle foreste, con le rapine della guerra, cioè con modi di acquisto, con i quali bisogna usare e afferrare materialmente le cose per esserne padroni; e solo perchè le prime cose di proprietà furono conquistate con la pressione materiale, quel gesto si è strettamente associato ai sentimenti del desiderio e resta documento dei modi, onde sorse la proprietà primitiva; dalla conquista cioè e non dallo scambio, idea più complessa e pratica più tardiva. L’uomo, prima di pensare a scambiare il superfluo delle cose sue, con il superfluo delle altrui, si procurò tutto da sè, con la caccia, la pesca, la rapina, ecc.[94]. E tanto più [55] l’occupazione e la conquista deve essere un modo generale di acquisto ai primordi della civiltà, che allora le res nullius sono assai più numerose che adesso: i pascoli, le foreste, i fiumi non sono ancora caduti in potere di privati, talora la proprietà fondiaria non esiste nemmeno; e in ogni modo anche quando esista un rispetto per la proprietà della casa, degli attrezzi del lavoro, dei prodotti della raccolta, esso si restringe, nei popoli militari, alla propria tribù; ma le cose del nemico, le sue armi, la sua casa, le sue donne sono anch’esse res nullius, che si acquistano con la forza.
Ora, in un tempo in cui, abbondando le res nullius, quasi tutte le cose si acquistano con la conquista, quale sentimento di rispetto alla proprietà può formarsi, in una stessa tribù, sia riguardo ai prodotti della caccia, della pesca, ecc., sia per le conquiste di guerra di ogni singolo membro a danno delle tribù nemiche? Evidentemente solo un sentimento di rispetto al diritto del primo occupante. Certo colui che ha conquistata con fatiche e pericoli una cosa agognata, la difende contro le possibili usurpazioni degli altri: quindi, dalla esperienza delle lotte in cui quei tentativi di usurpazione trascinavano, si venne a poco a poco formando e rafforzando un rispetto per la proprietà già conquistata dagli altri; e si trovò giusto che essa fosse di chi vi aveva per primo poste sopra le mani[95]. Noi troviamo che [56] il Diritto romano e i codici moderni dispongono appartenere la res nullius al primo occupante: ora questa, che è una regola di diritto secondaria, oggi che le res nullius sono pochissime, dovette essere la prima regola e per un certo tempo anche l’unica norma del diritto di proprietà quando le res nullius erano numerosissime. Ne venne che, rafforzandosi questo sentimento di rispetto, bastò in seguito fare atto di padrone sopra una cosa, perchè essa fosse rispettata, tanto si era associato potentemente il sentimento di rispetto a quell’atto, e perchè la proprietà fosse rispettata, anche se il suo padrone non avesse la forza sufficiente a difenderla personalmente. D’altra parte, quegli atti di prensione erano necessari all’acquisto della proprietà, perchè essendo l’unica regola che le cose sono del primo occupante, gli atti di occupazione sono evidentemente il titolo dell’acquisto e senza quello la cosa rimane nullius. Anche oggi e per lo stesso sentimento «lo scopritore di un continente ignoto — scrive il Gianturco — non ne diviene proprietario e sovrano in virtù della sola intenzione: occorrono atti efficaci di possesso e di sovranità»[96]. Questa regola che è oggi specialissima ad uno dei pochi casi di res nullius, era un tempo generale a tutte le specie di proprietà, quando le res nullius abbondavano.
In seguito, come già vedemmo, alla proprietà sôrta dalla conquista, si aggiunse la proprietà sôrta dallo scambio. Ma similmente che per le associazioni di carattere non familiare, la pratica dello scambio dovè introdursi nei costumi, prima che se ne formasse nelle menti una idea chiara, precisa, accompagnata da una nozione e da un sentimento preciso dei diritti e dei doveri, che la nuova forma di acquisto portava seco. Le idee e i sentimenti rimasero per un pezzo ancor quelli dei tempi in cui la proprietà nasceva dalla conquista; e la proprietà nascente dallo scambio non fu allora considerata legittima se non si compivano quegli atti che consacravano la proprietà nascente dalla conquista.
[57]
Ecco come secondo me si può spiegare quel fatto, la cui stranezza fu troppo poco avvertita dagli storici del diritto, che cioè noi vediamo nei contratti primitivi la proprietà nascente dallo scambio esser consacrata da atti di conquista. Nell’antico Diritto tedesco era necessario, per la validità di un acquisto di fondi, che l’acquirente vi facesse sopra atto di padrone, rompendo rami o convitandovi amici o passeggiandovi sopra. Nella mancipatio romana, il compratore, alla presenza di cinque cittadini romani e del libripens, diceva: Hunc ego hominem (se si trattava di uno schiavo: se si trattava di un altro oggetto, si nominava) ex jure quiritium meum esse aio; isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra: percuoteva poi la bilancia; e doveva, come Gaio ci dice espressamente (I, 121), ghermire una ad una le cose, se erano parecchie. Non si sa se il venditore pronunciasse anch’egli qualche formola; ma è certo che la formalità essenziale della cerimonia era quell’atto di padronanza e di conquista, compiuto sulle cose.
Così pure nel Medio Evo bastava al coerede di porre il piede nel castello di un feudo dipendente dalla successione, per diventarne padrone e non poterne più essere spossessato, secondo le leggi anglo-normanne, che da un breve del Re[97].
Evidentemente queste formalità sono intimamente contradditorie; perchè in esse non la cessione o la volontà del testatore garantiscono il diritto, ma l’atto di padronanza fatto sulla cosa. Io credo perciò che quelle formalità appartengono a tempi in cui la trasmissione delle proprietà o per scambio o per altri mezzi cominciava a introdursi negli usi; ma in cui non si era ancora stabilita ben forte l’associazione tra l’idea della cessione volontaria e l’idea del diritto dell’acquirente a vedersi rispettato l’acquisto: rimaneva invece ancor forte l’associazione tra gli atti di prensione e il rispetto e l’idea di una proprietà individuale. Quindi le cose cedute per scambio si coprirono con la protezione di questi atti di conquista, che servivano nei tempi precedenti; e ancora per un pezzo il titolo giuridico di una proprietà non fu la cessione volontaria fatta dal precedente proprietario, ma la conquista. Ecco perchè il cerimoniale della [58] conquista sopravvisse ancora per qualche tempo nel cerimoniale della vendita; e la presa di possesso del coerede generava in lui, secondo l’opinione generale, un così forte diritto di proprietà da non potere essere distrutto che con un mezzo estremo.
3. È probabilissimo che il ratto sia stato la prima forma di conquista della donna nel mondo umano; sia perchè tutto induce a credere che quella lotta sessuale, così bene studiata dal Darwin per il mondo zoologico, sia nel mondo umano passata per quello stadio prima di raffinarsi nelle più civili forme moderne; sia perchè troviamo il ratto vero in uso nei popoli selvaggi più rozzi e specialmente negli Australiani, che mettono sotto i nostri occhi il ritratto forse più verosimile di ciò che dovette essere un giorno anche la più ingentilita umanità di oggi. In ogni modo supponiamo che il ratto reale esistesse in origine; la naturalezza con cui il cerimoniale del ratto si spiega in tal caso potrà essere una conferma dell’ipotesi stessa.
È noto come al ratto successero altre forme di matrimonio, specialmente la compra; e che intorno alla compra si ricamò poi tutta la pantomima simulante il ratto. Si capisce che tale trasformazione si fece specialmente allo scopo di evitare le lotte che sorgevano per i rapimenti delle donne: giacchè la donna, rappresentando nella vita selvaggia una utilità, come l’animale da soma, è considerata e difesa come una proprietà. Ma questa trasformazione non può essere avvenuta ad un tratto; era impossibile che l’uomo trovasse repentinamente l’idea che si potevano evitare le lotte comprando la sposa, il salto sarebbe stato troppo brusco; e l’uomo, specie il selvaggio, non ha tanta potenza critica e inventiva; ma accetta passivo i costumi tradizionali. Ci dovè essere un termine di passaggio: e questo fu la coesistenza, in un periodo, delle due forme, il ratto reale e la compra. In origine il prezzo, che servì poi a comperare la sposa, non fu forse che un mezzo di propiziazione, un dono che il rapitore faceva alla famiglia della sposa per placarla e farla rinunciare alla vendetta; era dunque successiva al ratto e una delle tante forme di donazione in uso tra i selvaggi. Così tra i Turcomanni, il matrimonio spesso è contratto così: i due fidanzati fuggono in un obah vicino, dove sempre sono accolti ospitalmente e dove passano [59] la luna di miele: frattanto i seniori dei due obah si interpongono, fissano un prezzo, pagato il quale, i due sposi ritornano; e la ragazza rimane allora sei mesi od un anno ritirata in casa, senza che il marito possa vederla se non di nascosto: dopo tornano insieme e il matrimonio è conchiuso[98].
Diffondendosi l’uso di comporre le inimicizie derivanti dai ratti delle donne con doni, può essere invalsa a poco a poco l’abitudine, non di fare i doni dopo compiuto il ratto, ma prima di avere la donna: può questo essere stato uno dei mezzi con cui i più ricchi la vincevano sui rivali più poveri e con cui i genitori si assicuravano il mezzo di trafficare le proprie figlie a buone condizioni, sottraendosi alla necessità di dover accomodarsi come potevano, quando la fanciulla non era più in loro mani. Ma sarebbe un errore credere che generalizzato l’uso di indennizzare anticipatamente la sposa, l’uso del ratto dovesse subito cadere: qui si genera, per effetto del misoneismo, una delle tante contraddizioni di cui è così ricca la storia dell’uomo. Noi troviamo infatti presso alcuni popoli la compra e il ratto reale della sposa coesistere. In alcuni distretti della Nuova Zelanda, sebbene il matrimonio fosse preceduto da un contratto, la lotta era accanita; i parenti custodivano gelosamente la ragazza; il fidanzato doveva impadronirsene a mano armata, e talora ne usciva molto malconcio[99]. In altri distretti era già un po’ meno accanita; ma siccome il fidanzato doveva lottare con la sposa, e le donne erano là molto robuste, la contesa durava spesso per ore[100]. Nel Kamtchatka il fidanzato deve pagare avanti la sposa, servendo nella famiglia di lei, talora per anni: ma quando ha compiuto il suo laborioso noviziato di sposo, deve ancora impadronirsi violentemente della sposa che, difesa dalle donne della iourte, deve subire dall’uomo una specie di oltraggio al pudore. Allora è sua moglie; ma prima la battaglia dura talora dei giorni[101]. È che, sebbene si vada introducendo il costume dell’indennizzo e della compra, per la lunga abitudine di conquistarsi la sposa con la forza, non si concepisce altro [60] modo di averla che con la forza; e una donna avuta pacificamente non sarebbe considerata come moglie. Di più, siccome alla lotta si associano spesso sentimenti di vanità, e in molti popoli l’audace conquistatore di femmine è ammirato molto dagli uomini e anche... dalle donne, così sarebbe un disonore aver la propria sposa pacificamente. Inoltre abbiamo visto che, quando lo scambio delle cose manca o è rudimentale, o grandissimo è il numero delle res nullius appartenenti a chi le conquista, sono necessari gli atti di prensione e di conquista a far sentire il proprio diritto di proprietà sulla cosa: così la proprietà della donna, tanto tempo acquistata con la forza, non dovè sentirsi dall’uomo che dopo una conquista violenta, anche quando l’uso della compra si diffondeva, per la resistenza dell’antico sentimento a trasformarsi nel nuovo. Fors’anco le donne non sentivano la forza del vincolo matrimoniale e non si consideravano come mogli, se non dopo rapite[102].
In uno stadio dunque di evoluzione per cui passarono, secondo me, tutti i popoli che conservano le traccie del cerimoniale del ratto, la compra non fu che un mezzo di composizione anticipata per il ratto; ma il ratto era ancora il modo di acquisto. Noi troviamo nel matrimonio una contraddizione analoga a quella trovata nella mancipatio romana, di un contratto cioè nascente dallo scambio, che si afferma con un atto di conquista.
Giunti a questo punto è facile immaginare le trasformazioni ulteriori di quel costume. Non avendo più la lotta una ragione reale, a poco a poco i difensori della donna avranno diminuito il loro accanimento e con quello dei difensori diminuì certo l’ardore dell’assalitore, al che già si vede accennare in alcune parti la cerimonia [61] della Nuova Zelanda (Earle). Così a poco a poco si è ridotto a una sopravvivenza sparuta, a una pura pantomima, conservata dalla enorme forza di conservazione di tutti gli usi sociali, deformata nei suoi particolari dalle piccole modificazioni accidentali, sino, talora, a mutar quasi aspetto, come accade di tutte le cerimonie che esistono ancora senza uno scopo vivente. Enorme è il numero dei popoli in cui troviamo questo cerimoniale, più o meno mutato nei particolari dai capricci di quelle accidentali variazioni, fino a tramutarsi talora in una danza: onde vien fatto di meravigliarci e quasi di sorridere a questo spettacolo dell’evoluzione che nei capricciosi meandri del suo corso eterno senza direzione determinata, trae dalle lotte sanguinose di un tempo, gli allegri balletti e le liete cerimonie di un’altra età.
4. Un processo analogo ha dato origine al simbolismo del processo romano che simula, come è noto, un duello.
È certo che, specialmente tra i popoli militari, le dispute private relative ad ogni questione, si sciogliessero un tempo con la spada. Anche creato e rafforzato lo Stato, il potere sociale non intervenne a separare i combattenti, per avocare al proprio giudizio la decisione della disputa; perchè dalla lotta cruenta delle armi alla lotta pacifica delle ragioni troppo grande è l’abisso, e tale, che d’un salto l’uomo non poteva varcarlo. Lo Stato restrinse la sua azione, in origine, a regolare le condizioni della lotta, che doveva compiersi in presenza di un suo rappresentante. Tale era la condizione del duello giudiziario presso gli antichi Tedeschi.
Vediamo ora per quali trapassi alla lotta materiale sia succeduta la battaglia ideale delle ragioni. Secondo il Dugmore, il processo cafro simula una spedizione armata della tribù a cui appartiene l’attore, contro la tribù del convenuto. «Esce la prima in armi e va a porsi in vicinanza dell’altra tribù, dalla quale, appena li vedono, escono tutti gli uomini armati e vanno a porsi in un altro luogo, lontano dal primo. Succede un lungo intervallo di silenzio, dopo il quale incominciano le trattative, che si perdono spesso in un interminabile seguito di discussioni capziose»[103].
[62]
Si dice spesso che i tribunali furono istituiti per frenare l’anarchia della giustizia privata, ma è impossibile però che questa riforma sia stata attuata ad un tratto. L’uomo primitivo che risolve ogni questione con la spada, trova normalissimo questo mezzo, che a noi pare assurdo, e non concepisce che ve ne possano essere altri: anzi si ribella a quei metodi, che solo a noi sembrano ragionevoli, se da un despota più intelligente gli vogliano essere imposti. Così Teodorico, questo Pietro il Grande dei Goti, che, educato ai costumi romani, ne aveva capita e ammirata la civiltà, volle imporre ai Goti l’abbandono del duello giudiziario; ma frequenti sono nel suo Editto i lamenti perchè i sudditi si rifiutano di sottoporre le questioni ai suoi giudici, per deciderle invece con l’armi, e non riconoscono così la grande riforma civile che egli voleva introdurre. Anche Carlomagno, mente troppo alta per i rozzi tempi in cui visse, dovè minacciare pene severissime contro i duelli giudiziari; ciò che dimostra che le sue riforme civili erano sgradite ai suoi popoli: e lui morto, il regime di guerra si ristabilì senza contrasto. Nulla v’è d’assolutamente assurdo e intollerabile per l’uomo; e quel costume, che sembra orrendo in un dato tempo, può essere sacro per un altro.
Quindi le idee e i sentimenti non possono essere mutati, rispetto al duello giudiziario, ad un tratto. Quando cominciò a introdursi l’uso di risolvere le questioni con la discussione, non si può credere che si mettessero subito in un canto le armi: in origine la soluzione incruenta della questione dovè essere una felice eccezione in qualche caso meno complicato e per cui le passioni non si fossero scaldate soverchiamente; mentre in altri casi, le parti anche andate sul terreno con il proposito di definir la questione pacificamente, avranno finito per troncarla colla battaglia. Insomma, l’idea che il giudizio era una lotta personale, dovette rimanere: solo modificandosi in questo che si credeva che essa fosse un duello a cui era probabile una soluzione pacifica, ma che poteva anche finir nel sangue: quindi ci si andava armati e pronti alla battaglia. È lo stadio che noi vediamo presso i Cafri: essi vanno al giudizio armati come se dovessero combattere, e poi, invece che con le armi, la questione si finisce con le parole. Gli etnologi non dicono se mai essi ritornino al sistema primitivo della lotta; se ciò fosse, significherebbe [63] che l’uso di risolvere la questione pacificamente è ormai così radicata, che il pericolo di una ricaduta nell’antica violenza è scomparso; le armi sono allora portate sul luogo, per quella tenace resistenza che è comune a tutti gli usi.
Quella legge di Alfredo, re d’Inghilterra, che riportammo più sopra, è un’altra prova, che proprio tale fu la base di transizione dal duello al processo. Che dispose il re d’Inghilterra, che, pur desiderando nell’alta sua mente d’abolire i costumi sanguinosi dei duelli giudiziari, capiva certo che d’un colpo non avrebbe potuto schiantare un uso così radicato? Dispose appunto che, prima di battersi, l’offeso tentasse tutte le vie per risolvere la questione pacificamente; che bloccasse nella sua casa l’offensore e gli domandasse giustizia; che, fallita quella prova, ricorresse all’ealdormann; e, ove questi si mostrasse sordo, al re; riuscite inutili queste pratiche, si battesse allora. Evidentemente, per l’offeso, il modo di avere giustizia non era punto mutato: era sempre un duello, a cui egli si avviava armato e pronto a combattere; ma che poteva anche in certi casi risolversi senza il bisogno delle armi. La condizione della giustizia privata, in quel tempo, dovette insomma essere quella stessa che noi troviamo oggi nei rapporti internazionali: i Governi ricorrono talora all’arbitrato, ma tengono asciutte le polveri e considerano ancora come suprema ratio la forza, nel caso che l’arbitrato non riesca.
In quel curioso fossile del Diritto romano, che è il più antico processo, si possono, con una attenta analisi, rintracciare i vari periodi di sviluppo percorsi da quell’organismo, quand’era vivo.
Esaminiamo quella che fu una delle forme più antiche, e forse anche la più antica: l’actio sacramento in rem. Se si trattava di cose mobili, dovevano esser portate in giudizio: quando fossero mal trasportabili, se ne portava una parte. Ciò fatto e informato il giudice degli avvenimenti e della ragione del litigio, si cominciava ad attuare in sua presenza la legis actio sacramento. Supponiamo che si trattasse di uno schiavo: colui che primo vendicava, tenendo la verga (festuca, sostituzione della lancia) in una mano, con l’altra apprehendebat, cioè afferrava lo schiavo; e intanto si alternava il seguente dialogo: Hunc ego hominem ex jure quiritium meum esse [64] aio secundum suam causam sicut dixi ecce tibi vindictam imposui. Nello stesso tempo festucam homini imponebat, cioè lo toccava in segno di padronanza. L’altro faceva e diceva la stessa cosa, e stendeva sulla cosa contrastata la sua mano; stavano allora su questa due mani, ciò che era detto consertio manuum, che simulava una occupazione risoluta e potente, e passava anche come frase di guerra. Era il primo periodo dell’actio, che riassumeva, come si vede, la sfida. Dopo ciò, il pretore interveniva dicendo: Mittite ambo hominem, e le parti lo lasciavano andare; ma colui ch’era stato il primo a vendicare, voltato all’avversario, soggiungeva: Postulo anne dicas qua ex causa vindicaveris; al che l’altro riprendeva: Jus peregi sicut vindictam imposui[104]; e il primo replicava sfidandolo a una scommessa: Quando tu injuria vindicavisti D. aeris sacramento te provoco; il secondo allora conchiudeva alla sua volta, accettando la scommessa: Similiter ego te. Le parti, giunte a questo punto, domandavano di essere rinviate al giudizio, che seguiva dopo trenta giorni ed era una specie di applicazione ai fatti, totalmente scevra da ogni ingerenza del pretore, che non faceva altro se non decretare sulle vindiciae, cioè costituire un possessore provvisorio e comandargli di dare all’avversario i praedes litis et vindiciarum e ricevere da ambedue i praedes sacramenti in garanzia che il perdente avrebbe pagato la sua scommessa.
Quasi eguale era la procedura, quando si trattava di cose immobili, salvo alcune inevitabili differenze. Nei tempi più antichi, le parti si portavano sul fondo, e là si eseguiva la deductio o lotta fra i due litiganti, di cui l’uno tentava di cacciare l’altro; più recentemente si portò al giudizio una zolla[105].
È ora possibile tentare una probabile ricostruzione delle fasi, attraverso cui passò il processo romano? Credo di sì. Esso era in origine un duello, a cui assisteva un rappresentante dell’autorità (in principio forse il re stesso), non per decidere egli la disputa insorta, ma per sorvegliare la battaglia e provvedere che fosse fatta [65] in date condizioni di mutua lealtà. Sull’uso del duello si innestò poi l’uso della decisione rimessa ad un arbitro: ma non ad un tratto e repentinamente, bensì per un trapasso graduale, ch’è segnato dalla scommessa. Che i Romani abbandonassero ad un tratto l’uso di troncar le questioni con la spada, era impossibile; ma fu invece possibile, che a poco a poco, si diffondesse l’uso di scommettere tra le due parti che un terzo, scelto ad arbitro, avrebbe dato ragione a sè; perchè quello era una specie di duello trasportato sopra un campo differente; a cui l’avidità di guadagnare, oltre la cosa, anche la posta, poteva fare accondiscendere facilmente; e che all’antico piacere di uccidere l’avversario, oltrechè di prendergli l’oggetto conteso, sostituiva il piacere di vincergli una somma di denaro; non aboliva cioè totalmente quel piacere, come avrebbe fatto l’uso, repentinamente introdotto, di mettere senz’altro la questione all’arbitrio del magistrato[106]. Ma quando l’uso della scommessa cominciò a diffondersi, per il processo tante volte descritto, le idee non cambiarono subito, ma si credè di muovere sempre a un duello, che poteva invece finire con una scommessa; quindi si andava armati, si faceva la sfida, come nei casi ordinari: e tutti questi atti, abbreviati e deformati, rimasero per la tenace resistenza a sparire dagli usi, anche quando il costume della scommessa prevalse in modo che il duello non fu più usato.
Tutto ciò è confermato dallo stranissimo fatto, che il pretore non si ingeriva menomamente nella soluzione della questione: segno che egli rappresentava ancora il magistrato che in tempi più antichi assisteva alla lotta e che nel periodo di trapasso ebbe forse l’ufficio di eccitare i litiganti ad appigliarsi, invece che alle armi, alla scommessa e al giudizio arbitramentale di un terzo.
5. Per questo innato conservatorismo dell’uomo, le idee più sono antiche, più sono tenaci, e più violenta ribellione suscita ogni tentativo di modificarle. A tutti è noto che è più facile perdere un’abitudine contratta da un mese, che quella da un anno; lo stesso accade delle idee: e le idee che sono patrimonio comune da dieci generazioni, [66] si possono più facilmente sostituire che quelle che lo sono da cento o da mille generazioni. Di qui una conseguenza singolare: siccome le idee più antiche sono le più religiosamente conservate, e siccome, essendo più antiche, rimontano quasi sempre a periodi di minore esperienza e di maggiore ignoranza, e quindi sono quasi sempre più errate che non le più recenti, ne viene che l’uomo tiene appunto più appassionatamente a quelle idee che sono meno ragionevoli.
Non da altro deriva la grande importanza che nel diritto a certe epoche si annette ad alcune formalità antichissime, che sono tanto più religiosamente osservate, quanto meno hanno di ragione reale. È noto come in origine il corpo giudiziario fosse costituito dall’assemblea militare, cioè da tutti i guerrieri. Era perciò naturale che il luogo di riunione dovesse essere all’aperto e spazioso: in una foresta, in un prato, su una piazza, ecc., ecc.; ma ecco che anche quando il potere giudiziario passò dall’assemblea militare al re o ad un suo ufficiale, rimase una formalità quasi sacra per lui, quella di tornare a rendere la giustizia in quei luoghi, dove la rendeva già l’assemblea militare. Così gli Elettori di Germania andavano, sino al sedicesimo secolo, a proclamare il nome dell’imperatore eletto, sulla montagna, cioè là dove probabilmente era in antico eletto dal popolo. Nel Medio Evo abbiamo notizia di tribunali adunati in riva ai fiumi[107], ai laghi[108], intorno a fontane[109], a sorgenti e a pozzi[110], sui ponti[111]. Luigi IX, ci racconta Joinville, andava spesso nel bosco di Vincennes, e sedutosi sotto una quercia, ascoltava i reclami e i piati di chiunque si presentasse[112]. I sovrani ebraici tenevano giurisdizione [67] «nelle porte», luogo ordinario di riunione presso i popoli orientali. Tra gli antichi Romani, il re amministrava la giustizia nel luogo dell’assemblea, seduto sopra un carro. Nel libro del Gomme, Primitive Folk-moots, sono molti esempi da cui risulta, che tra gli antichi tedeschi il Königs-stuhl (seggia reale) era un banco di erba verde[113].
Nè da altra causa trae origine l’importanza che si attribuisce anche oggi alla pubblicità e oralità dei dibattimenti, specie penali, quasi che tali formalità fossero una grande conquista della civiltà, mentre non sono che un ritorno a costumi antichissimi. La pubblicità, oggi inutile, anzi dannosa, perchè si riduce a un centro di suggestione criminosa e ad uno sfoggio di teatralità del delitto che non è certo la più morale, è un avanzo degli antichi giudizi popolari; l’oralità poi dei dibattimenti risale al tempo in cui le discussioni si facevano tutte con la parola, perchè mancando le leggi scritte, il tenore delle costumanze era affidato alla memoria dei rapsodi o bardi, quando l’uso della scrittura era molto minore che non al presente. Così gli abitanti delle isole del mare del sud «avevano fatto — scrive l’Ellis — delle loro ballate tradizionali una specie di autorità classica, a cui si riportavano per la determinazione d’un fatto contestato della loro storia». Quando un dubbio sorgeva «come mancava un punto d’appoggio fisso, non potevano che opporre una tradizione orale ad un’altra: ciò che trascinava fatalmente le parti ad una discussione lunghissima e spesso ostinata»[114]. Ecco perchè noi diamo ancora più importanza alla deposizione che il teste fa all’udieuza, che non a quella che fece innanzi al giudice istruttore: mentre dovrebbe essere il contrario, perchè questa è di data più recente e più vicina agli avvenimenti, ed è fatta in condizioni migliori, lontano cioè dal pubblico, dall’accusato, dall’apparato della giustizia, che possono impressionare il teste e anche involontariamente fargli scambiare o confondere i ricordi. Ora, quando tra un secolo o due la scrittura avrà sostituito in gran parte la parola nei processi e i giudici non esamineranno più l’imputato pubblicamente e si formeranno poi la [68] idea complessiva del suo carattere e della sua colpabilità leggendo i rapporti scritti delle testimonianze, gli uomini di allora si meraviglieranno che un tempo il processo fosse una così strana mescolanza di oralità e di scrittura, che il testimone venisse a ripetere ciò che già aveva detto ed era stato ridotto a protocollo; che infine si facesse tutta quella rappresentazione teatrale così costosa, così incomoda e così inutile, come noi ci meravigliamo di veder coesistere la compra e il rapimento presso certi popoli. Qualcuno anzi potrà anche supporre, come si è supposto per il cerimoniale del ratto e del duello, che fossero quelle formalità appositamente stabilite, per ricordare che anticamente i dibattiti erano orali.
6. Parrà forse strano di voler fondare tutta la teoria di questa classe di simboli sopra una contraddizione. Ma possiamo noi asserire che l’uomo sia un essere logico? Roberto Ardigò, in un suo scritto stupendo, ha risposto di no. «I dati della cognizione di un uomo, egli scrive, cadono nella sua coscienza a poco a poco, in tempi diversi, per vie disparate, in modi vari, con direzioni opposte. E vi si incontrano a caso, come i detriti e gli oggetti d’ogni sorta, trascinati dagli affluenti nel fondo di un grande fiume da plaghe opposte e lontanissime. Anzi, siccome il massiccio fondamentale della psiche è lo stesso patrimonio comune delle cognizioni tradizionali della società, nella quale si forma, e questo patrimonio è la sovrapposizione storica dei trovati difformi e discordanti delle età passate, così la coscienza può paragonarsi alla roccia geologica costituita di una serie di stratificazioni affatto diverse l’una dall’altra»[115]. L’irragionevole è dunque una forza della storia tanto e forse più che la ragione; e colui che si figge in capo di voler spiegare con la logica le vicende del genere umano, potrà essere un grande erudito, ma della storia non capirà mai nemmeno una sillaba.
Nel che le idee e i sentimenti si dimostrano obbedire alle leggi comuni di tutti gli altri fenomeni naturali. È forse logica la natura quando conserva ancora per migliaia e milioni d’anni, in una pianta o animale, un organo divenuto inutile, prima di sopprimerlo con la [69] lunga atrofia? Così sono le idee e i sentimenti: anche divenuti inutili, durano ancora per un pezzo a sussistere, finchè spariscono, dopo il lungo disuso.
E si ha insieme una riprova che l’uomo non ha mai creato istituzioni, usi, ecc., dietro una idea preconcepita; e che la sua determinazione non entra in nulla nei risultati ultimi a cui arriva l’opera sua. Non fu l’idea del contratto o della discussione pacifica che fecero sostituire la compra e il giudizio al rapimento e al duello: ma la compra e il giudizio sostituiti al rapimento e al duello generarono con una lenta suggestione l’idea del contratto e della discussione giudiziaria nel cervello dell’uomo.
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1. I sensi, anche quello della vista, che è il più importante per la comunicazione col mondo esteriore, ci dànno un’immagine alterata della realtà, perchè sono tutt’altro che strumenti di precisione.
Una delle più importanti differenze che passano tra le cose come sono e come le vediamo, è questa: che se le cose sono troppo complesse o troppo numerose, noi non ne percepiamo che i tratti principali o una parte; e solo per effetto delle esperienze anteriori riconosciamo l’oggetto, nonostante l’imperfetta sensazione. Quando noi guardiamo un vasto prato, non ne discerniamo certamente nè tutti i fili d’erba, nè tutti i fiori; ma abbiamo una sensazione complessiva di verde, in mezzo a cui risalta la sensazione di un filo d’erba o di un fiore più illuminato. Se entriamo in un bosco, non percepiamo certo distintamente tutti gli alberi nel loro complicato intrecciamento; il campo visivo non è occupato che da un piccolo numero, e di questi, quelli che sono nella zona della visione diretta sono veduti più chiari: gli altri sono invece in una semioscurità. Secondo il Reymond[116], quando noi fissiamo una parola posta in mezzo ad una riga, non possiamo riconoscere nemmeno approssimativamente le parole poste alla estremità della linea; anzi, in una stessa parola noi possiamo ottenere tutt’al più la visione perfetta di una sola lettera, mentre la forma delle lettere attigue può essere indovinata: [71] ma esse appariscono già con contorni indecisi ed indeterminati.
Tutto ciò dimostra che il campo visivo è ristretto; e per questo riescono così preziosi i movimenti del globo oculare, che si rimediano in parte supplendo con la molteplicità delle sensazioni alla loro insufficienza. Le sensazioni che noi abbiamo delle cose complesse, sono sensazioni ridotte.
Tale riduzione si estende naturalmente dalle sensazioni alle immagini e alle idee, che non sono se non sensazioni trasformate.
Se noi cerchiamo di rappresentarci una foresta, vedremo mentalmente un certo numero di alberi, ma non certo tutta la loro moltitudine. «Quando si parla di un certo individuo, scrive lo Spencer, noi ci facciamo di lui una idea abbastanza esatta. Se si parla della famiglia a cui appartiene, probabilmente di essa sarà rappresentata al pensiero soltanto una parte: dovendo prestare attenzione a ciò che si dice della famiglia, noi non ce ne figuriamo che i membri più importanti conosciuti da noi, e trascuriamo gli altri, di cui abbiamo una idea vaga, che all’occorrenza potremmo compiere. Se, per esempio, la famiglia di cui si parla appartenesse alla classe degli affittaiuoli, noi non enumereremmo nel pensiero tutti gli individui appartenenti a questa classe, nè crederemmo di poterlo fare se ci fosse richiesto; ma noi ci contentiamo di considerare alcuni pochi individui e di ricordarci che di questi se ne potrebbero considerare all’infinito... In tutta questa serie di casi vediamo che più aumenta il numero degli oggetti raccolti insieme nel pensiero, più il concetto, formato di pochi esempi tipici, combinato con la nozione della moltiplicità, diventa simbolico, non solo perchè cessa di rappresentare l’ampiezza del gruppo, ma anche perchè, siccome il gruppo diventa sempre più eterogeneo, gli esempi tipici pensati sono meno simili alla media degli oggetti contenuti nel gruppo»[117].
Tutto ciò è così vero, che un grande artista, il Tourguenieff, aveva, senza saperlo, basata la sua teoria estetica della descrizione sul processo di riduzione. Secondo lui, la descrizione era tanto più perfetta quanto più si limitava a riprodurre quel particolare più [72] caratteristico, che richiama per associazione l’impressione complessa di tutta la scena; tanto egli aveva intuito che nei grandiosi e complicatissimi quadri della natura noi non notiamo che alcuni tratti più risaltanti. «L’ingegno descrittivo, scrive il Bourget, pareva al Tourguenieff consistere tutto nella scelta del particolare evocatore. Egli lascia la visione risuscitare in lui e nota il particolare, che risorge primo, e che è sempre l’essenziale, quello a cui gli altri fanno corteo»[118].
Come esiste nelle sensazioni, nelle immagini e nelle idee, la riduzione si applica anche ai sentimenti, che da quelli prendono origine. L’amore, la ripulsione, l’entusiasmo, la paura che destano in noi certi oggetti molto complessi, sono eccitati da quegli aspetti dell’oggetto che noi percepiamo più vivamente e non da tutto l’oggetto, che non apparisce intero alla coscienza. Baudelaire odiava Bruxelles perchè gli alberi non vi odoravano come a Parigi, cioè per quel difetto particolare che, ad un iperosmico come lui, doveva essere di una importanza massima[119]. Il Krafft-Ebing notò come anche negli uomini sani l’amore per una donna è determinato in generale da una qualità speciale; chi ama più gli occhi di un dato colore, chi la pelle fina e delicata; chi la taglia snella ed elegante, chi i capelli abbondanti o il piede e la mano graziosi; altri invece sono eccitati da qualità morali ed intellettuali, la grazia, la bontà, lo spirito; e moltissimi sopratutto dalla voce, che conserva tra gli uomini quella potenza di seduzione che ha tra gli uccelli cantori. Il Krafft-Ebing anzi attribuisce al fascino sessuale della voce i folli amori che le grandi cantanti suscitarono intorno a loro[120].
E così pure noi notiamo la riduzione nei gesti. Come l’immagine delle cose complesse è ridotta nel cervello, così il gesto, che si modella sull’immagine, riesce naturalmente ridotto. I sordomuti per esprimere «casa» inclinano l’una verso l’altra le braccia, ad indicare il tetto[121]; gli Indiani del Nord-America usano un gesto analogo [73] per indicare tenda, accampamento; e per esprimere foresta fitta, alzano la mano, con la palma in fuori, i diti allungati, posti l’uno innanzi all’altro alternativamente, ad indicarne il gran numero[122]. Quando noi vogliamo invitare alcuno a prendere un mucchio di oggetti minuti, gliene offriamo per eccitarlo una manciata; e quel gesto vale come segno che egli può prendere tutto, che noi gli doniamo tutto.
2. Questo fenomeno esercita una grande influenza sulla formazione dei simboli. Ne è un primo effetto quel fenomeno, la cui spiegazione sfuggì pure all’occhio d’aquila del Marzolo, così frequente nelle lingue primitive: la reduplicazione.
In moltissime lingue, per indicare un gran numero di cose dello stesso genere, il plurale, si usa ripetere due volte il sostantivo: per indicare la maggiore intensità d’una azione o la contemporaneità di due azioni, si ripete due volte il verbo. Così in malese râda = re, râda-ráda = i re; kayu = legno, kayûan = bosco; kayu-kayan = bosco folto; in peruviano cacha = albero; cacha-cacha = bosco; in samoano fulu = pelo; fulu-fulu = capigliatura; in turco bol = largo, abbondante; bol-bol = molti; a Giava pira? = quanti? pira-pira? = molti? così pure a Samoa tufa = dividere; tufa-tufa = dividere più volte, spesso; tala = parlare; tala-tala = urlare; moe = dormire; moe-moe = dormire insieme; ad Hawai luli = muovere; luli-luli = muovere spesso, scuotere; a Tonga tete = tremare; tete-tete = tremar molto; nofo = abitare; nonofo (sincope di nofo-nofo) = abitare insieme[123].
È questa una vera riduzione filologica, perchè esprime una pluralità di cose, indicandone soltanto due. Come l’immagine di pochi individui o di pochi oggetti serve a rappresentarci nella mente un complesso di cose numerosissimo, così nel linguaggio la reduplicazione del nome serve a indicare la cosa in gran numero, o l’azione [74] ripetuta. È la riduzione delle immagini e dei concetti riflessa nel linguaggio; nè a noi sembra il raddoppiamento di un sostantivo incompetente a rappresentare una pluralità di oggetti, perchè l’immagine che abbiamo nella mente di quel complesso non è costituita dalla immagine di più che due o tre individui; è insomma anche essa semplicemente quasi una reduplicazione.
Così nella più antica arte greca, sui bassorilievi, una foresta era rappresentata con un albero, un esercito con un soldato, un edificio con una colonna: dove l’immagine già ridotta di quegli oggetti complessi subiva ancora una nuova riduzione per le difficoltà manuali della rappresentazione grafica sul marmo.
3. Abbiamo visto che anche i gesti sono modificati per il processo di riduzione, quando si applichino ad oggetti troppo complessi a cui non siano adattati. Vedemmo pure come, secondo le idee primitive, un contratto non è valido senza la consegna effettiva della cosa. Ecco come il gesto del Khonds, più sopra ricordato, che dà una manciata di terra al compratore del suo campo, e quello analogo del procuratore del signore nelle cerimonie scozzesi dell’investitura, sono il gesto naturalmente modificato dal processo di riduzione, dell’offerta, trattandosi di cosa che, come il campo, non si può maneggiare. Nulla di premeditato, ma un gesto naturalmente ridotto.
Questo gesto naturale e involontario può, col tempo, essersi associato all’idea della trasmissione della proprietà, così strettamente, che l’offerta di una zolla o di qualche altra parte del campo divenne il segno della vendita. La differenza tra lo stadio rappresentato dai fatti precedenti e quello rappresentato dai fatti che seguiranno, sarebbe questa: nel primo caso il gesto è una vera consegna del campo, fatta sul luogo stesso; nel secondo ha valore di segno della proprietà trasmessa in sè, e può esser compiuto lontano dal campo, innanzi a dei testimoni. Nel primo caso bisognava veder strappare la zolla di terra al campo e poi consegnarla; nel secondo soltanto vederla consegnare, per l’idea della trasmissione della proprietà, più strettamente associatasi a quel gesto.
Ecco perchè quando Tu-ouen-hsin mandò in Inghilterra la sua missione Panthay, gli ambasciatori portarono delle pietre, prese ai quattro angoli della montagna Zalì, per esprimere il loro desiderio [75] di divenire feudatari della corona britannica[124]. Tra i Franchi, nelle cessioni dei fondi, il tradente dava all’acquirente una zolla, o un ramo, o una pietra. Secondo la legge bavara, per la consegna di una selva si dava un cespuglio di erba o un ramo[125], e nel Medio Evo l’investitura di un fondo si faceva consegnando una zolla di terra. Eguale uso troviamo, come è noto, presso i Romani. La paglia, che noi troviamo nel Medio Evo impiegata nell’investitura di una prateria, di un frutteto, di un campo, non è che un simbolo analogo a quello del cespuglio d’erba, e che fu più spesso preferito perchè più comodo; anzi era tanto la consegna della paglia, che garantiva la prova del contralto, che la paglia era spesso nel Medio Evo inserito nel diploma della vendita: prova palmare che il documento scritto, frutto precoce, per quei tempi, di tradizioni romane rinverdite, era malamente compreso.
Noi ci troviamo insomma in presenza di mezzi di prova più primitivi che i nostri, e perfettamente analoghi a quel gruppo di simboli che analizzammo di sopra. Solo che il processo di riduzione ha alquanto modificato il simbolo; ed ha associato l’idea della trasmissione della proprietà non alla consegna della cosa, ma di una sua parte, e in seguito anche di una sua parte così minima, che il rapporto con la cosa venduta diventa tenuissimo. Tale l’investitura per il simbolo della paglia; e più ancora quella fatta con il simbolo di una foglia di noce.
Associatasi poi ad alcuno di questi atti, per esempio, alla consegna della paglia, sempre più strettamente l’idea della trasmissione della proprietà, esso finì per applicarsi anche a cose, a cui originariamente non poteva adattarsi, come le case: quindi noi vediamo il simbolo diventare sempre più generale, divenire da simbolo della vendita di un campo o di un verziere, simbolo della trasmissione della proprietà in generale.
E nello stesso tempo esso diventa sempre più astratto, e tende a dissolversi, perdendo sempre più il suo carattere concreto. La consegna di una zolla di terra strappata, in presenza del compratore e [76] dei testimoni, al campo, è una formalità concreta e materiale, quasi una consegna del fondo stesso: ma la consegna di un fuscello di paglia in segno di un fondo o di una casa venduta, è già un simbolo assai più astratto, perchè il suo rapporto visibile con la cosa è minore, perchè il distacco tra il simbolo e la cosa è assai più grande, e l’uomo già lo colma con le ricche associazioni mentali che si sono formate nella sua mente. Un passo ancora: anche la fragile paglia sparirà e il simbolismo materiale dei tempi primitivi sarà sostituito dalle forme più ideali di prova che noi usiamo. Così a poco a poco, senza quasi che egli se ne accorga, l’uomo è dall’evoluzione mentale messo a faccia a faccia con le più alte e più complesse idee astratte.
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1. Non solo le idee, ma anche le emozioni hanno i segni o simboli che le rappresentano e per mezzo dei quali possono essere comunicate da una ad altra persona.
Vedemmo che una emozione, da qualunque causa prodotta, dura un certo tempo, poi si affievolisce sino ad estinguersi: nè l’amore, nè l’odio, nè il piacere, nè il dolore, sono, per fortuna dell’uomo, eterni, perchè essendo anch’essi trasformazioni di forza, cessano quando hanno esaurita la quantità iniziale di energia, che avevano all’origine. Vedemmo pure che, per la legge dell’inerzia mentale, quell’emozione non può rinascere, sia pure con intensità minore, se una sensazione, stata precedentemente associata con essa nell’esperienza, non la rieccita e ravviva. Ora i simboli emotivi sono costituiti da queste sensazioni che hanno potere di risvegliare emozioni sopite: per la legge dell’inerzia essi sorgono ed acquistano la loro immensa importanza.
2. In un popolo selvaggio, il cacciatore che torna al villaggio carico di un grosso animale ucciso, o il guerriero che, sul campo di battaglia, abbatte un gran numero di nemici, eccitano vivamente l’ammirazione di quanti lo vedon tornare carico della preda o ammazzare uno dopo l’altro i molti nemici; egli stesso, nel momento in cui porta la preda o vede a terra i cadaveri dei vinti e si sente intorno l’ammirazione dei propri compagni di tribù, proverà intenso il piacere della potenza individuale e il piacere dell’ammirazione. Ma divorato l’animale o abbandonato il campo di battaglia, ben presto quei [78] sentimenti di ammirazione della tribù per lui e anche quei sentimenti suoi di orgoglio, di potenza e di vanità soddisfatta si affievoliranno, per la legge comune di tutti i sentimenti. Se noi anche oggi, in popoli civili, vediamo generali e uomini politici, che hanno riportato grandi vittorie o resi servigi eminenti al paese, adorati finchè il ricordo delle vittorie o dei servigi è recente, dimenticati e maltrattati quando il ricordo, in pochi anni, si è spento, non possiamo dubitare che anche più rapidamente, per il minore sviluppo mentale, nei popoli selvaggi si vada seppellendo nell’oblio il ricordo di una impresa audace o di un atto di coraggio. Ecco la ragione ultima del trofeo: adornandosi dei denti dell’animale, della mascella del nemico ucciso, o di qualche altra parte, l’uomo primitivo si carica di un oggetto la cui vista ecciterà in lui stesso quei sentimenti di orgoglio e di piacere provati a compiere l’impresa e negli altri il ricordo del suo valore e i sentimenti di ammirazione e di timore: sarà quella dunque la sensazione che ridesterà, sebbene con intensità minore, tutte le emozioni che il valore in guerra, o nella caccia, destarono al momento in cui si mostrava. Quindi in colui che lo porta e in quelli che lo vedono, i sentimenti della propria superiorità e dell’ammirazione si associano con la vista del trofeo. Togliere al proprietario il trofeo sarebbe come rubargli la gloria della sua impresa. Di qui l’immensa diffusione del trofeo nelle razze primitive, e l’enorme pregio in cui i trofei sono tenuti[126].
Il trofeo si trasforma poi, per un’evoluzione che fu studiata dallo Spencer, in distintivo di classe e di autorità (bastone, scettro, lancia, spada, colori vivaci, bel vestito)[127]. Che cosa accade allora? Il capo e il re o il membro della classe nobile differisce dalla folla vile degli altri mortali, per essere insignito del distintivo o vestito con abiti speciali: ne verrà che quei sentimenti di timore o di soggezione, che gli atti di potenza e di prepotenza del capo o della classe nobile suscitano nei sudditi si associeranno alla vista dei distintivi e saranno da questi risvegliati in ogni occasione. Se il capo o la casta [79] dominante fossero vestiti come tutto il popolo, il terrore che una loro prepotenza può suscitare durerebbe un certo tempo e poi impallidirebbe fino a scomparire: onde sarebbe loro necessario, per mantenere il proprio predominio, ricorrere sempre a nuove violenze: mentre associatisi quei sentimenti alla vista di quei distintivi, essi risorgono continuamente, e il capo o il nobile, vestiti del loro costume speciale, rieccitano quei sentimenti di soggezione, che generarono le loro antiche violenze o quelle dei loro antenati, senza bisogno di ricorrere a nuove. Analogamente il capo o il nobile, vedendo che la riverenza è maggiore verso di loro nei sudditi, quando essi appariscono in mezzo a loro adorni dei distintivi e sentendo allora più intenso il piacere della superiorità propria, associano l’idea e il sentimento della propria potenza al distintivo; si sentono più vivamente padroni quando lo indossano. Per questo essi considerano come una usurpazione della loro autorità ogni usurpazione del loro vestito, perchè quei distintivi eccitano quei sentimenti di soggezione di cui vogliono gelosamente esser soli a fruire. Come si vede adunque, il simbolismo dell’abito è una conseguenza della legge d’inerzia, della necessità cioè di fissare con una sensazione i sentimenti, che abbandonati a loro stessi percorrono un rapido ciclo discendente, sino ad estinguersi. Per questa legge, il capo selvaggio si sente allora soltanto il padrone, quando è vestito del suo costume privilegiato; vestito comunemente, sarebbe poco più considerato che gli altri: perciò egli tiene tanto al suo vestito particolare come alla sua autorità.
Ecco la ragione di quel fenomeno, dimostrato universale, ma non spiegato dallo Spencer: le leggi suntuarie. Così dall’uso di prendere ai vinti gli abiti più brillanti, ne venne che gli abiti splendidi furono l’insegna delle classi dominanti; al Madagascar solo il re può portare abiti di scarlatto; solo il Kututuchtu (Gran Sacerdote mongolo) e i Lamas possono vestirsi di giallo, e il giallo è in China il colore imperiale; nel Medio Evo, in Francia, solo i principi potevano vestirsi di rosso. Dall’uso di prendere ai vinti tutti gli abiti, il vestito divenne un simbolo della libertà e della potenza; onde le classi si differenziarono talora dal numero dei vestiti; alle isole Sandwich, a Tonga, a Tahiti i capi si distinguono dalla restante folla per l’enorme quantità dei vestiti che portano, a spese talora della [80] comodità; tra i Fundah i cortigiani si imbottiscono di vestiti, in modo da prendere talora la forma di una palla. Dall’uso di togliere al nemico vinto le armi e conservarle come trofeo, venne che il distintivo dell’autorità è l’arme: così al Giappone la classe più alta porta due spade, la media una, la infima nessuna.
Di qui l’enorme importanza attribuita dalla leggenda, dai costumi, dall’opinione popolare ai distintivi dell’autorità. Chi non ricorda, ad es., la corona ferrea, conservata così gelosamente, di cui Napoleone volle cingersi a consacrare con il rispetto attribuito ai simboli quella potenza che aveva pure una consacrazione più reale, quella del suo genio militare? In tutta la storia medioevale le incoronazioni hanno una parte importantissima; e per un imperatore tedesco è sempre una grave questione diplomatica decidere dove e per mano di chi sarà coronato. Chi non ricorda nella leggenda svizzera di Guglielmo Tell il cappello inalberato dal Gessler a cui si dovevano gli onori spettanti al sovrano? Monstrelet racconta che Enrico IV, re d’Inghilterra, essendo vicino a morire, si levò a un tratto sul letto, quando vide il figlio metter mano alla corona, che pendeva dal capezzale, dicendogli: «Che diritto vi hai tu?»[128]. E quando Luigi XI ebbe costretto il fratello Duca di Berry a cedergli la Normandia, esigè che consegnasse l’anello ducale; e poi, in una solenne assemblea, tenuta a Rouen il 9 novembre 1469, lo fece frantumare[129]. Non gli pareva di aver ben vinto il fratello, sinchè il simbolo dell’autorità sua rimaneva.
3. Si vede così come la funzione dell’abito non sia stata solo quella di difendere il corpo dal freddo e il pudore dagli attacchi: l’abito ha avuto anche una altissima funzione di simbolo; è stato il mezzo per fissare con una sensazione un gruppo di idee ed emozioni riferentisi alla qualità, al grado, alla condizione delle persone, diventandone il simbolo; è quasi il registro in cui ogni uomo porta scritto la propria qualità. E viceversa l’uomo, siccome egli è schiavo della legge d’inerzia e i suoi giudizi e sentimenti si producono accidentalmente secondo che le sensazioni vengono a risvegliarli, si [81] comporta verso i suoi simili, inconsciamente guidato dall’abito e non dall’idea delle qualità personali; si direbbe che, tutti nudi, gli uomini si considererebbero eguali fra loro e che agli occhi dei più la differenza tra Napoleone e un tamburino, tra Goethe e il suo servitore è stabilita dall’abito diverso che portano. Il marchese di Castine notò che in Russia si considerava come una stranezza un uomo, di cui l’abito non indicasse il grado e la qualità, e la cui importanza risiedesse tutta nei suoi meriti personali, senza alcun segno esteriore. Oggi stesso, nella civiltà europea, abolite tutte le altre distinzioni di abito, una sola ne è rimasta: gli abiti eleganti e gli abiti rozzi, simbolo i primi delle classi borghesi e gli altri delle classi proletarie; ora quale persona di elevata condizione non arrossirebbe e non si sentirebbe come decaduta dalla sua posizione, se dovesse uscire vestito come un muratore? Chi di noi non ha provato che è più difficile trattar male un birbante vestito bene, che un galantuomo vestito male? Tanto il simbolo è potente, tanto certe date sensazioni risvegliano certi dati sentimenti, senza che noi possiamo opporci alla loro associazione se non con estrema fatica.
Anche oggi, del resto, l’abito ha una parte importante nel simbolismo politico-giuridico; chi non ha osservato e esperimentato che un ordine d’un carabiniere in divisa è assai più suggestivo che un ordine di un’autorità in borghese? Anche oggi le classi che vogliono conservare un’individualità spiccata in mezzo alle altre, come i preti ed i soldati, adottano un vestito speciale e lo difendono contro le usurpazioni.
Il vestiario rispecchia perciò le condizioni politiche e sociali d’un popolo; e un buon psicologo può descrivervi queste condizioni, solo conoscendo i tipi d’abito in uso. Dove le differenze del vestito sono piccole tra i vari individui, si ha un Governo poco accentrato e dispotico; dove sono grandi, si ha l’aristocrazia o il dispotismo; gli abiti delle classi superiori in cui entrano come distintivi oggetti di guerra, indicano una società militare; gli abiti divisi in due specie, i sontuosi e i ruvidi, indicano una società mercantile, composta di un’aristocrazia finanziaria e di una plebe proletaria. E le evoluzioni dell’abito segnalano o seguono i mutamenti della storia: il barometro che annunciò con le sue oscillazioni la tempesta della rivoluzione [82] francese fu proprio la moda. «L’abito — scrive il Bukle — aveva tale importanza nel secolo XVI, che la condizione di una persona si vedeva subito dal suo esteriore, nessuno osando usurpare l’abito della classe superiore. Ma nel movimento democratico che precedette la rivoluzione francese, l’innovazione della moda si fece sentire fin nelle riunioni mondane..... Nei pranzi, nelle cene, nei balli, ci dicono i contemporanei, il vestito era divenuto d’una tale semplicità, che i ranghi si erano confusi; ben presto i due sessi abbandonarono ogni distintivo: gli uomini andarono in società in frac, le donne in corsetto»[130].
L’abito si potrebbe in certo senso chiamarlo il simbolo eterno della storia dell’uomo, della sua evoluzione psichica, politica, sociale, giuridica.
4. Numerosissimi sono i simboli emotivi di altre specie, perchè tra questi vanno enumerate le immagini religiose, le bandiere, altrettante sensazioni destinate a risvegliare certe specie di emozioni, religiosa, patriottica, ecc., ecc. Ma di questi parleremo più avanti, perchè la loro funzione è più complessa.
[83]
Studiata la genesi e la funzione di molti simboli, ci resta ad analizzare quello che è il più sconosciuto e per certi rispetti il più importante fenomeno del simbolismo: il processo per cui il simbolo spesso assorbe, per dir così, la realtà che rappresenta; si sostituisce ad essa, e perdendo il suo valore di segno, è scambiato con la cosa che esso starebbe a significare. Sono queste le frodi che il simbolo fa all’intelligenza umana, trascinandola spesso in errori gravissimi: perchè anche il simbolo, mentre da un lato è un sussidio prezioso all’uomo nella lotta per l’esistenza, dall’altro è fonte di molteplici danni. Sono questi simboli che acquistano un valore molto più grande del loro primitivo di segno, che io chiamo simboli mistici.
1. Dopo le profonde critiche dello Spencer alla teoria feticista della religione, in cui egli dimostrò come l’idea che le cose siano animate è idea già complessa e perchè tale niente affatto propria nè del selvaggio, nè del bambino; dopo le risposte del Guyau, che tentava riprendere l’antica teoria attenuandola e adattandola meglio ai fatti, che lo Spencer aveva messi in luce, la questione sull’idea che si fa il selvaggio intorno ai fenomeni, è uscita dal periodo di tradizione comunemente accettata senza ragioni sufficienti. Senonchè, se il Guyau ha avuto ragione di sostenere contro il suo grande avversario che i selvaggi hanno idee ben diverse dalle nostre su molti fenomeni e specialmente su quei congegni in uso tra i popoli civili che sembrano muoversi e agire per virtù propria, [84] come le armi da fuoco, le navi, ecc., non ha determinato con precisione il processo mentale per cui quelle idee, così lontane dalle nostre, si formano[131].
È ormai dimostrato che nell’idea di causa non è implicato altro concetto che quello d’una successione necessaria di due fenomeni. Quando noi diciamo che il fenomeno A è causa del fenomeno B non intendiamo dire altro se non che A è continuamente seguito da B, e il processo mentale con cui noi giungiamo a tale conclusione è quello dell’associazione. Siccome il presentarsi di A è sempre seguito dal presentarsi di B, mentre altri fenomeni C, D, E, F, ora si presentano ed ora no, per la legge che la coesione e quindi l’associabilità degli stati di coscienza è proporzionale alla frequenza con cui si sono seguiti nella coscienza[132] il presentarsi di A richiamerà l’idea di B, cioè la previsione di quello che noi diciamo suo effetto; il presentarsi di B richiamerà l’idea di A, cioè l’enunciazione di quella che noi diciamo sua causa. Kant ha forse, meglio di tutti, con una analisi profonda dimostrato che l’idea di produzione (cioè che la causa generi essa l’effetto), che noi associamo a quella di causa, è un’immagine nostra e poco giusta[133].
Ora, congiungendo quest’osservazione con la legge del minimo sforzo, troveremo la causa di moltissimi errori di ragionamento commessi dall’uomo primitivo e dal volgo, e in questi la genesi di alcuni simboli. Supponendo che tre fenomeni A, B, C si seguano costantemente, ma di cui B e C si possano percepire con i sensi, con la vista, il tatto, il gusto, ecc.: A invece non sia percepibile coi sensi, sia invisibile, intangibile, ecc., ecc., accadrà che soltanto B e C, producendo una sensazione, solo tra le immagini e le idee loro si stabilirà l’associazione, con cui poi concludiamo al giudizio di causa. A, non producendo nessuno stato di coscienza, non entrerà nella serie associativa: si potrà solo indurre la sua presenza necessaria nel fenomeno, con la osservazione attenta, il confronto, l’analisi dei fatti, ossia con l’investigazione scientifica [85] e applicando i quattro metodi per la ricerca della causa, determinati dallo Stuart-Mill. Gli elementi presenti alla coscienza, se la riflessione non interviene, non possono essere che le immagini o le idee di C e B, essi soli essendo già stati percepiti come sensazioni.
Ora, in quel ragionamento incosciente che per la tendenza dell’uomo a fuggire la fatica mentale è la forma più comune, come vedemmo, del ragionamento tra la gran massa degli uomini, questo calcolo delle cause invisibili, che richiede attenzione e riflessione non si fa mai. Ne viene che entrando nel campo della coscienza solo B e C, solo le loro sensazioni e idee s’associeranno e B sarà detto causa di C a totale esclusione di A. L’Australiano supplica il fucile del bianco di non ucciderlo[134]: cioè in lui la vista del fucile si è fortemente associata al ricordo delle sue conseguenze fatali, ma tutto quel complesso di meccanismi e di azioni per cui un fucile può uccidere, cioè la polvere, lo scatto, l’atto dell’uomo che fa scattare il grilletto, la cui importanza nella produzione dell’effetto non può essere valutata che col ragionamento, non entra nella serie associativa: la conclusione è quindi tratta dai due soli stati di coscienza che la sensazione porge direttamente, ed è che il fucile uccide l’uomo. Egualmente gli Esquimesi credettero che un organetto di Barberia parlasse[135], cioè che quella cassa di legno emettesse essa quei suoni, come la gola dell’uomo la parola: perchè il complesso meccanismo con cui si può far parlare una cassa di legno non potendo essere capito che con lunghe e difficili serie di riflessione, essi associarono semplicemente la vista dell’oggetto al suono della musica e attribuirono questa a quello, come a sua causa.
È questo del resto uno degli errori più comuni del ragionamento volgare: a questo errore si deve quella cieca fiducia dell’uomo negli strumenti che egli ha inventato, quasichè fossero essi che producono i meravigliosi effetti, e non l’uomo che li adopera. Domandate a un uomo del popolo che cosa fa muovere il treno e novanta volte su cento vi risponderà che è la locomotiva: nessuno quasi pensa invece che sia l’intelligenza del macchinista[136]. Nei paragoni che comunemente [86] si fanno tra la potenza dei vari eserciti, si enumerano sempre gli uomini e i cannoni che ciascun popolo può mettere in campo: e quale Italiano non crede che l’Italia sia una delle più forti nazioni sul mare, solo perchè ha le navi e i cannoni più grossi? Nessuno pensa che una nave formidabile o un esercito bene armato può essere affatto inutile o anche dannoso non essendo che uno strumento, se non è ben guidato, come un fucile Rémington in cattive mani può essere più innocuo d’una balestra primitiva, nelle mani d’un valentissimo arciere. Che più? perfino nel mondo della scienza noi vediamo perdurare questo errore che attribuisce allo strumento le virtù che sono invece nell’uomo che lo adopera: noi vediamo gli scienziati italiani attribuire alla povertà dei laboratorî la inferiorità della produzione scientifica italiana in confronto alla tedesca; come se il microscopio e non l’occhio che guarda dentro e il cervello che pensa dietro l’occhio facesse la scoperta; come se in Italia non si fossero fatte grandi scoperte in laboratorî più squallidi di soffitte, e non si fossero buttati milioni in grandi gabinetti, da cui non uscì nulla; come se Haeckel non avesse formulata addirittura la legge che la produttività d’un laboratorio è in ragione inversa della ricchezza di mezzi.
Noi ci troviamo qui dinanzi ad un arresto ideativo: vale a dire la serie di associazioni mentali con cui noi concludiamo un ragionamento di causalità, si restringe a quei fatti che danno una sensazione immediata, che lasciano quindi nel cervello immagini ed idee con tendenza ad associarsi ed esclude quei fatti che non possono produrre uno stato di coscienza se non con la riflessione, cioè con un processo mentale assai faticoso, da cui l’uomo comune e anche il pensatore, in quei campi che non sono l’oggetto delle sue ricerche abituali, rifugge per la legge del minimo sforzo.
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Lo strumento si vede, gli effetti si vedono; ma l’opera dell’uomo che muove lo strumento non si vede, quindi si attribuisce tutto il merito dell’effetto allo strumento, dimenticando l’intelligenza dell’uomo, senza cui lo strumento non sarebbe che un inutile blocco di ferro o di bronzo. Ecco perchè, come osservò il Guyau, la leggenda attribuisce sempre un potere magico alle spade dei grandi capitani, come se ad esse si dovessero le loro vittorie.
2. Tale arresto ideativo ci spiega il concetto trascendente che l’uomo si è fatto della scrittura che divenne per lui uno di questi simboli che io chiamo mistici.
La scrittura e la carta sono per i negri del Congo degli spiriti che parlano agli scrittori, e quando un Europeo li incarica di portare un messaggio avranno cura, se per la strada perdono del tempo a divertirsi, di nascondere la lettera perchè non sveli la loro poltroneria[137].
All’Annam i Francesi provocarono, senza volerlo, una ribellione degli indigeni, perchè facevano malo uso delle carte scritte da loro stessi e che gl’indigeni considerano come sacre[138]. L’Indiano dell’America del Nord crede che le carte scritte non possano contenere menzogne, e pregiano infinitamente una lettera di raccomandazione, indipendentemente dal suo tenore[139]. Infatti il selvaggio, quando vede l’Europeo che aprendo un foglio scarabocchiato di segni conosce le idee e le intenzioni di un altro uomo che forse è distante mille miglia, non può calcolare col ragionamento quel meccanismo complicato di associazioni per cui chi scrive riduce il suo pensiero in segni e i segni grafici risvegliano poi in chi legge le immagini dei suoni e quindi delle parole da cui ricava poi l’idea dell’altro: egli vede costantemente che dopo tenuto in mano un po’ di tempo il foglio, l’Europeo sa che cosa il suo compagno lontano pensi e ne conchiude, per l’arresto ideativo, che il foglio per una virtù sua, gli palesa i voleri dell’altro. Non potendo capire le vie per cui lo strumento agisce egli attribuisce l’effetto a una virtù dello strumento.
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«Cos’ha da pensare l’idiota, scrive il Marzolo, che sente dietro la lettura di una carta pronunciare le parole che un altro aveva detto a centinaia di miglia di distanza e poi vede agire secondo la volontà di quello che l’ha mandata? non può altrimenti, se non pensare che la carta parli»[140].
Lo stesso accadde del libro. Il volgo vede che l’uomo dotto, il medico, l’avvocato, ecc., vivono sempre in mezzo ai libri: i libri e i loro profondi e spesso oscuri discorsi sono i due soli dati che il senso gli dà e che quindi tendono ad associarsi; quanto al complesso meccanismo per cui il libro non è che un mezzo di trasmissione attraverso lo spazio e di conservazione nel tempo delle idee, egli non può calcolarlo se non con estrema fatica. Quindi conclude che il libro è quello che istruisce il sapiente, il pozzo a cui egli attinge le sue cognizioni straordinarie. Di qui l’importanza del libro nelle tradizioni: ogni legislatore, ogni riformatore, ogni uomo hors-ligne non ha mai cavato dal suo cervello le idee che lo hanno reso celebre, ma da un libro. Fo-hi, l’uomo santo della China, vede le leggi che dà poi al popolo, scritte sul dorso di un serpente alato. Nel Corano la teoria del libro, applicata ai grandi uomini, ha uno sviluppo straordinario: Dio fa discendere dal Cielo i libri nei quali è scritta la sua volontà, il Pentateuco, l’Evangelo, il Corano (Sur. VI, v. 9); ogni età ha il suo libro (Sur. XIX, v. 13): nessuno degli inviati da Dio è senza libro; Dio dice a Giovanni Battista: Prendi questo libro (il Pentateuco) (Sur. XIX, v. 31); e Gesù dice, appena nato, alla famiglia di sua madre: Io sono l’inviato da Dio, egli mi ha dato il libro (Sur. XVII, v. 94); O credenti, esclama il profeta (Sur. IV, v. 135) credete in Dio e nel suo apostolo, nel libro che egli ha mandato e nelle scritture discese prima di lui. Sarebbe questa insomma la teoria popolare del genio[141].
E si capiscono così, con l’idea che i segni grafici non siano mezzo di comunicazione, ma sorgente delle idee e delle cognizioni, le aberrazioni [89] della Cabala, che, scrive il Marzolo[142], era basata sull’idea che i segni grafici elementari (cioè le lettere dell’alfabeto) distribuiti e collocati in certe maniere dovevano far arrivare alla conoscenza di tutte le cose. Cioè quella virtù, che si attribuisce alle parole, è poi attribuita ai loro elementi, le lettere. E nel Zoar le lettere dell’alfabeto si presentano a Dio, ognuna per persuaderlo a prendere se stessa per creare il mondo. E si spiega così, senza ricorrere a speculazioni metafisiche difficili, la teoria di Pitagora che diceva essere il numero la essenza di tutte le cose: scambiando i segni, con cui noi indichiamo i rapporti quantitativi tra le cose, per elementi essenziali delle cose stesse.
Siccome le scritture non sono un mezzo per comunicare le idee con segni convenzionali, ma rivelano, secondo l’opinione comune, esse stesse le idee che contengono in se stesse; siccome esse parlano a chi sa intenderle, si capisce come in certi casi siano state sostituite alla parola e considerate quasi, specialmente nei rapporti con Dio, come discorsi recitati senza interruzione. Le Surate del Corano sono cucite nei vestiti, nascoste in piccoli sacelli di cuoio; i Buddisti ravvolgono intorno ai loro mulini delle pergamene ornate di questa scritta: ôm mani padme hum[143]; i Cattolici portano entro piccole borsette il testo stampato di orazioni: portare indosso scritte le parole della preghiera è come pregare continuamente, per la virtù che hanno i segni grafici di recitare a Dio la prece che in esse è redatta.
Di qui pure la singolare efficacia attribuita a certe formole scritte. I Maomettani e gli Zingari, quando sono malati, sciolgono nell’acqua le carte portanti scritte le formole magiche, e poi bevono[144]. A Napoli, fino a poco tempo fa, i frati di S. Severino e Sosio distribuivano per preservativo dai mali le iniziali della formola:
In conceptione tua Virgo immaculata fuisti;
Ora pro nobis patrem cuius filium peperisti;
che sono appunto:
I. C. T. V. I. F. O. P. N. P. C. F. P.
[90] impresse in carte, delle quali, chi vuole salvarsi da qualche disgrazia e guarire da un male, taglia una riga e poi inghiottisce in una cucchiaiata d’acqua, o di minestra, come una pillola[145]. Come nel caso precedente la scrittura sostituisce la parola, qui sostituisce la medicina: è essa che guarisce. E con un simbolo analogo, in Germania si usa ancora di togliergli, quando un malato è agli estremi, il guanciale, e porgli sotto il capo la Bibbia: non le preghiere o i suoi meriti salveranno dall’inferno il moribondo, quanto il libro miracoloso di Dio; perciò glielo pongono sotto la testa, perchè al momento di morire possieda un talismano. Ci meraviglieremo dopo ciò se gli Ebrei raccolgono le carte stampate in ebraico, quando cadono, e le bacino?
Nel diritto noi troviamo un simbolo, che probabilmente è derivato da questo concetto trascendentale della scrittura, sebbene rivesta una forma un po’ differente. In una formalità per la trasmissione della proprietà immobiliare, usata dai Franchi, il tradente poneva in terra un coltello, un guanto, una zolla, un calamaio e una penna, che poi separatamente (in seguito con la carta) levava da terra e consegnava all’acquirente[146]. Io credo che tale formalità (la consegna del calamaio e della penna) derivasse dalla mal compresa osservazione degli usi giuridici romani, in cui il documento scritto era usitatissimo: vedendo che i contratti si garantivano, usando i mezzi della scrittura, e non comprendendo, per l’arresto ideativo, il complesso processo di associazione per cui il documento scritto diventava prova, si attribuì la validità e sicurezza di quegli atti al fatto che mentre si compievano erano presenti quegli strumenti della scrittura, il calamaio e la penna. L’idea insomma del contratto in presenza delle cerimonie romane non si associò nei Franchi all’idea della documentazione scritta, ma a quella degli strumenti, che vedevano impiegati per redigerli: e quindi per loro la consegna, oltre che della zolla, del calamaio e della penna, aumentava la solidità dell’atto giuridico. Era perciò un vero simbolo mistico.
3. La parola è il mezzo più usato per trasmettere i comandi, specialmente [91] in società piccole, in cui il capo e i suoi servi e sudditi sono in continue relazioni di presenza. Di più la parola è uno strumento potente di suggestione: l’uomo dalla voce gagliarda comunica ai suoi comandi una imperiosità, che manca alle voci esili; nell’ipnotismo le suggestioni si fanno quasi tutte con la parola, e i soggetti restii ad un ordine dato a voce moderata, vi obbediscono, se se ne rinforza il tono[147]. Quindi la potenza di un uomo può misurarsi dall’efficacia delle sue parole; come anche noi diciamo per esprimere l’autorità di un individuo: «Vale più una sua parola...». Ecco perchè i popoli primitivi hanno espresso il concetto di un essere molto potente, come Dio, attribuendo grandi effetti alla sua parola. Nel principio della Genesi Dio crea il mondo con semplici ordini gridati ai quattro canti del caos. In arabo, Kelam ullàh significa parola di Dio e realtà universale. Nel Rig-Veda si legge: «I Pitris, con parole efficaci, hanno creata l’Aurora». E identica con la realtà universale fu concepita dai mistici la parola: il Verbum, il Λόγος di S. Giovanni.
Anche però tale idea non si potè formare se non per effetto dell’arresto ideativo. Un comando, anche dell’uomo più potente, non si può eseguire se le condizioni in cui è dato non sono tali che ne rendano possibile l’effettuazione; e il despota più potente non potrebbe innalzar le piramidi se non avesse a sua disposizione centinaia di migliaia di schiavi. Ma questa idea molto complessa non si è ancora formata nelle menti primitive: quindi un essere potentissimo, come Dio, può tutto con una parola, anche creare dal nulla il mondo: e ciò sebbene gli Ebrei non avessero l’idea metafisica, molto complicata, e creata poi dai teologi, della onnipotenza divina.
Ecco come è sorta l’idea della efficacia della formola e della preghiera in sè. Così leggiamo nel Rig-Veda: «La maledizione degli empi ha tre punte; ma la mantra (la formola del saggio) ne ha quattro», e «solo le formole rette trionfano sui nemici». In arabo aïat = segno, versetto del Corano, miracolo, azione, fatto prodigioso. La benedizione in ebraico = berachà, è quella che dà tutti i beni, che fa tutto; e presso gli Ebrei alcune parole sanavano e facevano [92] morire, e certe parole si usavano per medicina. La benedizione inoltre valeva di per se stessa, appena la formola ne fosse stata pronunciata, anche se a sbaglio e sopra una persona diversa da quella a cui realmente si indirizzava: così, nella Genesi Giacobbe si veste con la pelle di Esaù, carpisce al padre, semicieco, la benedizione di primogenito, che spettava al fratello, e il vecchio poi, quando si accorge dell’inganno in cui l’hanno fatto cadere, sbigottisce e non sa trovare rimedio. L’idea degli effetti della benedizione si erano tanto associati all’idea della benedizione stessa, che pronunciate le parole, nessuna potenza umana poteva più tagliare il corso degli eventi, che fatalmente ne derivavano, perchè l’idea che per valere dovesse non essere data a sbaglio, non si era ancora associata[148].
Così nella magia entrava per molta parte la fiducia nella sterminata potenza di certe formole. Gli incanti, gli incantamenti, come ci rivela la stessa parola, erano un tempo formole cantate, a cui si attribuiva una potenza superiore: in latino carmen significa anche detto magico.
4. Questi simboli, che ho detto mistici, perchè sono simboli che acquistano una importanza superiore al loro reale valore di segni, per un errore logico, ci dimostrano che la logica non è, come si credeva, unica ed universale dovunque: giacchè quello che io ho chiamato errore logico, lo è semplicemente rispetto al nostro modo di ragionare: ma è invece la legge naturale del pensiero per l’uomo primitivo o ancor rozzo. L’Organon di Aristotile o il Sistema di logica dello Stuart-Mill contengono assai più le leggi ideali del ragionamento umano che non le leggi reali; mostrano le vie per cui la ragione può giungere alla verità più che non descrivano le strade che essa batte nel fatto, giungendo talora alla verità e più spesso anche all’errore: potranno essere la legge del pensiero di un grande scienziato, ma non la legge del pensiero primitivo o anche del moderno pensiero del volgo. Ad ogni stadio di sviluppo mentale corrisponde una logica speciale: e se per lo Stephenson è normale vedere nel sole la causa ultima del movimento delle sue locomotive, non è meno normale e fisiologico per il bambino vederla nella locomotiva, [93] o per il selvaggio credere che la carta parli; anzi, considerando quanto più grande sia la parte dell’errore che quella della verità nella vita dell’uomo, c’è da credere che i rozzi processi logici dell’uomo primitivo e volgare siano ancora oggi più normali e fisiologici che le grandi leggi logiche di Aristotile.
Del resto, che cosa ne sappiamo noi? Può darsi che, come la logica si è finora perfezionata, continui a perfezionarsi ancora: e che un giorno, questi stessi grandi concetti sulla forza, sulla materia, sulla conservazione e trasformazione dell’energia, sull’evoluzione, che sono oggi le ultime conquiste della ragione più sviluppata nelle regioni dell’ignoto, sembrino idee rozze e primitive, come sembrano al pensatore europeo le concezioni del selvaggio o le superstizioni del popolo[149].
5. Un fenomeno analogo, che io chiamo l’arresto emotivo, avviene nel campo delle emozioni e dei simboli emotivi. Una emozione non è mai uno stato di coscienza unico, ma è sempre associato ad un numero più o meno grande di immagini e di idee, ad esempio, della persona o della cosa a cui si riferisce: così l’emozione dell’amore implica l’immagine o l’idea della persona o cosa amata. «L’idea ed il [94] sentimento — scrive lo Spencer — non potrebbero essere compiutamente separati. Ogni emozione corrisponde ad un complesso più o meno distinto di idee; ogni gruppo di idee è più o meno penetrato di emozioni. Ciò non ostante vi sono notevoli differenze nella proporzione con cui ognuno di questi elementi entra nella combinazione: vi sono sentimenti che rimangono vaghi, perchè non sono definiti da idee ed altri che acquistano una grande chiarezza dalle idee, a cui sono associati»[150]. Le emozioni sono dunque sempre associate a un gruppo più o meno grande di immagini o di idee: ora accade, per una serie di cagioni, che in molte emozioni l’immagine o l’idea della cosa a cui esse si riferiscono si attenua e nel campo della coscienza non rimane più che la cognizione del simbolo evocatore e l’emozione; allora questa si dirige, si arresta al simbolo.
6. È noto che nella religione, quasi dovunque e in tutti i tempi, l’adorazione che dovrebbe elevarsi sino a Dio, si ferma alle immagini che lo rappresentano. Ad esse, tronchi rozzamente scolpiti e fantocci informi dei selvaggi, statue perfette degli scultori greci, quadri dei santi della religione cattolica, croci di legno o di ferro, ad esse si dirigono preghiere e voti, ad esclusione totale dell’essere che rappresentano. Cook vide gli indigeni di Sandwich portar seco in guerra gli idoli degli Dei. Quando i Messicani marciavano, in guerra, i Sacerdoti aprivano la marcia con gli idoli. Gli abitanti dell’Jucatan, i Chibcas praticavano lo stesso costume. — In Samuele (2, V, 21) troviamo che i Filistei portavano seco in guerra le immagini dei loro Dei, e l’arca considerata dagli Ebrei come dimora dell’Eterno era portata spesso in guerra (2, Samuele, XI). Pure in Samuele leggiamo che sconfitti gli Ebrei dai Filistei, mandarono a prender l’arca, per ottenere la salvezza e l’ebbero, perchè il valore dei combattenti raddoppiò[151]. Noto è il terrore che si diffuse in Atene, quando una mattina si trovarono rovesciate le Erme degli Dei, e come Alcibiade, imputato del sacrilegio, dovette sottrarsi all’ira dei concittadini con l’esilio.
Anche il Cristianesimo, benchè sia partito da Cristo, apostolo di [95] una religione spirituale, non è oggi che una vera idolatria, almeno nelle moltitudini: nuova dimostrazione che non il Cristianesimo ha ingentilito il mondo, ma il mondo ha imbarbarito il Cristianesimo e il divino concetto di Cristo. Come si spiegherebbe, se no, tanta diversità e specialità di culti, nel culto della Madonna, quello, per esempio, della Madonna di Loreto, di Oropa, di Lourdes, ecc., ecc., a ciascuna delle quali si attribuiscono virtù particolari? È che non si adora la Madonna, ma quella tale o tale altra immagine sua. E per una questione di immagini, per sapere cioè se dei pezzi di marmo si dovevano lasciare nei tempî o toglierli, il sangue corse a fiumi per secoli nell’Impero bizantino; sommosse popolari, rivolte militari, congiure di palazzo, deposizioni e uccisioni di imperatori minacciarono di mandare a picco uno degli imperi più vasti che la storia abbia visto, e le donne di Costantinopoli giunsero sino a scannare gli ufficiali di Leone l’Isaurico, mandati ad abbatter le immagini[152]. Evidentemente la rivolta fu così violenta, perchè essi, rovesciando le immagini, distruggevano il loro Dio.
Talora invece il Dio non si confonde con l’idolo, ma con il suo sacerdote. Nel Guzerat, i trentasette grandi sacerdoti di Wichnou sono onorati oggi ancora come incarnazioni visibili del Dio: si pagano cinque rupie per contemplarli, venti per toccarli, tredici per esser frustati dalla loro mano, diciassette per mangiare il betel che essi hanno masticato, diciannove per bere l’acqua in cui si sono bagnati, trentacinque per lavar loro i piedi, quarantadue per ungerli d’olio: le donne infine pagano, per essere possedute da loro, da cento a duecento rupie.
Iddio dunque si confonde qui con il suo simbolo; e la teoria dell’arresto emotivo ci spiega una tal confusione. Dio, nessuno l’ha visto mai, quindi non si può averne un’immagine, se non costruendola da noi con la nostra intelligenza: ora, per costruire mentalmente, senza l’aiuto dei sensi, una immagine molto viva, è necessario uno sviluppo mentale considerevole. Per questo anche oggi, quasi in tutti alla parola Dio non corrisponde nella coscienza che [96] una immagine vaga e nebulosa. Ne viene che quando il contadino vede la croce che risveglia in lui un complesso di sentimenti di rispetto e di timore, l’idea o l’immagine di Dio, per essere uno stato di coscienza indeterminatissimo, si associa debolmente o non si associa affatto a quella emozione: quindi alla coscienza non sono in quel momento presenti che la vista del simbolo (croce), i sentimenti relativi, ma non l’immagine di Dio; e perciò quei sentimenti non possono dirigersi che al simbolo, perchè egli solo si trova nel campo della coscienza e dietro lui non c’è per l’adoratore l’immagine del Dio che esso dovrebbe rappresentare. Siccome un simbolo funziona in quanto ha la potenza di richiamare un gruppo di idee e di sentimenti, se queste associazioni non si fanno, il simbolo passa alla condizione di realtà, perchè l’emozione si arresta a lui e non risale a ciò che esso rappresenta.
Ecco perchè l’idolatria ripugnò sempre alle grandi intelligenze, da Mosè e da Maometto a Pascal e a Matteo Arnold, che protestarono sempre, ma spesso a torto, almeno dal punto di vista delle plebi, contro il culto delle immagini.
7. Talora il simbolo assorbisce la realtà da esso rappresentata e diventa simbolo mistico, perchè l’emozione di cui esso è il segno, diventa troppo complessa.
Il più caratteristico di questi simboli è la bandiera, che è un vero simbolo mistico, perchè sostituisce interamente nelle emozioni della massa, la patria o la società che dovrebbe rappresentare.
Un insulto fatto alla bandiera di una nazione può provocare perfino la guerra. Alle bandiere si rendono saluti, ci si inchina, in loro onore si sparano colpi di cannone, e ogni sera, al tramonto, sulle nostre navi da guerra, si cala la bandiera solennemente, al suono della marcia reale ed alla presenza di una compagnia di marinai, che l’aspetta alla sua discesa e le presenta le armi. Alla bandiera si rivolgono discorsi, inni, qualche volta si danno anche baci, come se fosse una persona viva o una bella donna. In guerra, la grande vergogna è di perdere la bandiera; arrendersi conta poco, se prima si è avuto cura di bruciare la bandiera, come fecero molti reggimenti francesi nel 1870: il grande onore di Britannico fu di riportare a Roma le aquile delle legioni di Varo, cadute in mano ad [97] Arminio: la Germania addita ancora alla Francia le 70 bandiere strappatele nell’ultima guerra. Dimostrazioni non se ne fanno senza bandiere; e chi non ha sentito in un comizio gli applausi frenetici che salutano lo spiegarsi di una bandiera nazionale? Ogni società, anche la più pacifica, per primo atto di vita inaugura il suo vessillo con discorsi, pranzi, luminarie: nè l’oratore d’occasione manca mai di rivolgerle una fervida perorazione. E così ramificato è cotesto simbolo, che nel linguaggio ne è derivata una intera legione di metafore: abbiamo le bandiere dei partiti, delle scuole scientifiche, delle sette religiose; i tradimenti della bandiera, le bandiere ammainate, spiegate, coperte di obbrobrio o splendenti di gloria, ecc., ecc.
Tanto, anzi, il simbolo ha in questo caso assorbito la realtà, che la notizia di alcuni Italiani maltrattati in terre lontane, risveglia poco o punto i sentimenti della solidarietà sociale; mentre la notizia che una folla briaca abbia strappato la bandiera nazionale, mette in ebollizione giornalisti, ministri, deputati, generali, pubblico.
Non mancano nemmeno certe ingenue stranezze, che dimostrano di che cosa sia capace l’uomo, in materia di sofismi. Nella Francia del Medio Evo, l’orifiamma reale, la bannière charlemanne, restava di solito, come si capisce da un passo di Raoul de Presles, a Saint-Denis, e in guerra se ne mandava una copia; così quando i Fiamminghi la presero a Mons-en-Puelle, il dolore non fu grande; tanto non era l’originale![153]
Eppure alle origini della civiltà la bandiera è un simbolo assai più realisticamente e ragionevolmente inteso: la bandiera, pelle di animale, o drappo, o ciuffo di piume inalberate sopra un’asta, è un semplice segno di riconoscimento per i membri di una tribù o di una schiera in guerra, e non desta di per se stessa entusiasmi. Gli antichi Peruviani avevano una lancia ornata di piume di diversi colori, che loro serviva in guerra di insegna: «ciò, scrive lo Spencer, fa pensare che gli accessori della lancia, usati da prima come segni, fornirono accidentalmente un mezzo di riconoscimento con cui raggrupparsi intorno al Capo. Quando l’esercito dei Chibchas si riuniva, ogni cacicco, ogni tribù inalberava sulle tende delle insegne [98] diverse, servendosi a ciò dei mantelli, con cui le tribù si distinguevano. Tra i Figiani ogni schiera combatte sotto la sua bandiera; e le bandiere si distinguono tra di loro per dei segni[154]». I Messicani mettevano una gran cura a distinguere le persone con insegne differenti, sopratutto in tempo di guerra[155].
A che si deve questa differenza, che sembra un peggioramento? Alla complessità vertiginosamente crescente che ha assunto il sentimento dell’amor patrio, con l’estendersi della superficie delle patrie e con l’aumentare dei rapporti che sempre più intricati intercedono fra i cittadini di un paese. I diritti e i doveri di un membro di una piccola tribù sono elementari: il sentimento di solidarietà è una emozione molto semplice, stante il poco numero di rapporti vicendevoli in essa compresi: tutti capiscono la necessità e sentono il dovere di difendere insieme il piccolo territorio, perchè se non lo sentissero, quella tribù sarebbe, nella lotta per l’esistenza, sparita innanzi ad altre già pervenute a questo primo grado elementare dei sentimenti sociali[156].
Ma invece il sentimento di solidarietà sociale e di amor patrio diventa enormemente complesso, quando si tratti non di piccole tribù, ma di società numerose, complesse nella loro funzione, comprendenti gli uomini a diecine di milioni e mutui rapporti di interessi complicatissimi. È una emozione che non può risultare che dall’associazione e fusione di un numero straordinario di stati di coscienza; i quali poi non possono raggrupparsi che intorno ad una idea astratta, l’idea della patria. Ora l’uomo, dato il grado del suo sviluppo mentale, non è oggi capace di una così complessa emozione; e perciò egli ve ne sostituisce un’altra più semplice, che ha per centro il simbolo. Invece della patria, l’oggetto dell’amore diventa la bandiera, che è una cosa visibile, tangibile, la cui imagine può essere con facilità evocata mentalmente: intorno ad esso si associano [99] una serie di stati di coscienza, che formano l’emozione dell’affetto, e che, trattandosi di un oggetto materiale, non sono più numerosi di quelli che formano il sentimento dell’amore per tutte le cose a cui l’uomo prende affezione nella sua esistenza. Una emozione complicatissima è ridotta alla semplicità dei sentimenti usuali mediante l’interposizione, tra essa e l’uomo, di un simbolo materiale, a cui l’emozione si arresta. Ad essa si dirigono tutti i sentimenti di ammirazione e di affetto; al di là esiste in molti un aggregato di stati di coscienza, idee e sentimenti, molto vaghi, che sono la nebulosa, da cui eromperà in avvenire il sentimento patriottico realistico, e che ciascuno associa alla vista del simbolo, come meglio può, liberamente.
Lo stesso accade nella politica. I partiti hanno sempre avuta una forte tendenza a distinguersi, a contrassegnarsi con emblemi di vario genere; per lo più con oggetti di vestiario di diverso colore. Chi non ricorda le fazioni dei verdi e dei rossi a Costantinopoli? Un avanzo di questa tendenza resta ancora nell’uso di contrassegnare i partiti politici con dei colori: neri i clericali; azzurri i moderati e i monarchici; rossi i rivoluzionari. Così i sans-coulottes simboleggiarono il loro antagonismo politico contro l’aristocrazia francese nel disprezzo della forma di abito che l’aristocrazia usava. Ma anche in questo caso, siccome spesso un partito politico rappresenta un complesso di idee, di interessi, di desideri, di bisogni molto numerosi e molto astratti, il sentimento per cui un uomo si appassiona al partito e ne segue con interesse le vicende è troppo astratto e complesso: allora l’uomo, per il processo analizzato più su a proposito della bandiera, semplifica l’emozione, appassionandosi per il simbolo. Chi non ricorda il berretto frigio dei rivoluzionari francesi, gli entusiasmi e le lotte sollevati da questo simbolo? Si battevano proprio per il berretto, dimenticando spesso le idee e i desideri che rappresentava: e a Torino, nel 21, per il berretto frigio si fece un massacro di studenti. Nel periodo del risorgimento italiano, per molti anni, a Milano, ad esempio, la lotta tra i liberali e l’Austria fu una lotta per l’emblema; quelli cercavano di mostrare in tutte le occasioni gli emblemi italiani (i tre colori, ecc., ecc.); questa cercava di impedirlo: e la confusione tra il simbolo e l’idea politica si verificava tanto, che un [100] egregio patriota lombardo mi diceva che quando i liberali riuscivano a inalberare una bandiera tricolore o a portare in molti delle coccarde nazionali, erano allegri come di una vittoria riportata sull’Austria. Si ricordi anche l’entusiasmo dei Francesi per Luigi XVI, quando alla coccarda azzurra sostituì la tricolore: il mutamento del simbolo entusiasmò la massa, che non calcolava quanto fosse differente appuntarsi all’abito questo o quel pezzo di nastro, dall’abbandonare o accettare le idee che l’uno o l’altro rappresentavano.
Tanto è poi comodo all’uomo sostituire una emozione astratta con una emozione che abbia per oggetto un simbolo materiale, visibile, che talora egli fa questo scambio quando anche l’emozione astratta non è delle più complicate; e non si accorge del ridicolo in cui incorre agli occhi di ogni persona un po’ seria. Tale è la toga, che simboleggia nei tribunali la maestà della giustizia: si protesta in nome della toga, si spoglia la toga per disdegno, si urla che non si tollereranno insulti alla toga, ecc., ecc.; povero cencio, spesso unto e consunto, preso a prestito da un usciere speculatore, che, a sentire i discorsi, sarebbe la cosa più sacra di tutta la terra!
L’utilità del simbolo, sotto questo rispetto, è stata immensa nella storia della civiltà. Uno dei fenomeni più strani della storia, una forse delle più larghe sorgenti della infelicità umana, è la rapidità immensamente più grande dell’evoluzione sociologica in confronto alla evoluzione psichica: in pochi secoli una società può estendersi e complicarsi immensamente, passare dalla condizione della Germania descritta da Tacito alla condizione della Germania presente: ma nello stesso tempo la media dell’intelligenza non cresce con eguale velocità; resta spesso anzi stazionaria o non si perfeziona che con estrema tardezza. L’uomo, come individuo, resta quasi sempre indietro all’uomo come membro di una società. Ne segue che spesso l’uomo dovrebbe, per trovarsi adattato interamente alle complesse condizioni sociali in cui vive, esser capace di emozioni molto più complesse ed astratte di quelle che egli possa sentire, dato il grado di evoluzione mentale; il simbolo rimedia allora a questa impotenza, porgendo il mezzo di sostituire alla emozione complessa una emozione più semplice, di cui esso è il termine, e che nei bisogni della lotta per l’esistenza può sostituirla con sufficiente utilità.
[101]
Questo vantaggio lo si nota già presso i selvaggi. Nel Dahomey, il capo di una fattoria di Grand-Popo aveva spedito una imbarcazione di mercanzie lungo il fiume, munendo il capo della piroga di quel bastone, che, come vedemmo, rappresenta quasi il sigillo particolare delle famiglie. L’imbarcazione fu depredata da una tribù rivierana: del che l’agente della fattoria mosse lamento a una potente tribù, che esercitava una specie di polizia sul territorio; e questa chiamò allora a sè i delinquenti, i quali nel Consiglio dei vecchi affermarono che un membro della loro tribù essendo stato offeso dal capo della fattoria predecessore del querelante, essi si erano vendicati sulla imbarcazione, ignorando il cambiamento avvenuto dell’agente. Il Consiglio dei vecchi non potè allora che assolvere i rei e mostrare all’agente il proprio rincrescimento per il malinteso; ma quando l’agente, per consiglio di un negro, disse al Consiglio che gli assalitori, oltre rubargli la roba, gli avevano rotto anche il bastone, immensa fu l’indignazione nel Consiglio, che revocando immediatamente la sentenza, condannò la tribù a restituire le cose rubate e di più a raccogliere i frantumi del bastone e a riportarli solennemente alla fattoria[157]. In questo caso l’emozione astratta e complessa del rispetto alla proprietà altrui è sostituita dall’emozione assai più semplice del rispetto all’oggetto materiale, che rappresenta gli individui: è un arresto emotivo, per cui si ha già una relativa e parziale osservanza dei doveri morali verso la proprietà altrui, quando una osservanza intera e compiuta è ancora impossibile, dato il grado di sviluppo psichico.
8. Vi è ancora un ultimo processo per cui l’uomo converte dei semplici segni in oggetto di venerazione.
Per la legge del minimo sforzo, le idee, le emozioni che si compongono di numerosi stati di coscienza associati, tendono a ridurre al minimo queste associazioni; a mantenere solo quelli che sono assolutamente necessari, lasciando perdersi gli altri, se una qualche causa non li tiene in vita. Accade così che spesso col tempo si producono notevoli mutamenti nelle idee e nei sentimenti dell’uomo. Un esempio classico ci è dato dalla preghiera e in generale dalle pratiche religiose. In origine le preghiere, le visite, i pellegrinaggi, ecc., ecc., [102] non sono che i segni della soggezione, della riverenza dell’uomo prima all’antenato, poi al Dio (almeno se si accetta la teoria dello Spencer): sono segni di devozione, intesi come tali e il cui vero significato è presente alla coscienza dell’uomo. Tanto è ciò vero che si cerca allora di adattarli al carattere del Dio, studiando quali parole e quali atti possano, dato il suo carattere, riuscirgli più gradevoli: segno che si ha una nozione realistica del valore della pratica religiosa. Col tempo invece la pratica religiosa è un compiuto simbolo mistico, la preghiera e le altre formalità non sono più il segno della devozione, ma il dovere religioso stesso; nell’osservarle, anche senza saperne più lo scopo, sta tutto l’obbligo del credente. È notissimo il fatto di credenti che pregano in lingue sconosciute; del cattolico che prega in latino, dell’ebreo che adopera nelle cerimonie religiose l’ebraico, senza spesso conoscerlo; dei Romani che cantavano in certe feste i carmina saliaria, scritti in un latino arcaico, che nemmeno i sacerdoti capivano più. Quale fervente cattolico non crederebbe di peccare gravemente se trascurasse la messa o il pellegrinaggio? eppure nessuno sa dire perchè tali cerimonie debbano essere gradite a Dio. Quello che era un tempo il segno di date disposizioni di animo, che si sapeva dovere essere gradite al Dio, diventa un dovere di per sè, indipendentemente dal suo significato; sale adunque all’importanza di simbolo mistico. Per questo si potrebbe dire che le religioni primitive sono più spirituali e meno formalistiche delle religioni civili. Tutte, o quasi, infatti le questioni religiose che scoppiarono nel secolo XVI vertevano sulla questione del rituale, se cioè si dovesse pregare con certe formole o con certe altre, se si dovessero osservare certi riti; era insomma la sola e intera preoccupazione del simbolo con cui doveva manifestarsi il sentimento religioso, a totale oblio di questo. Così in Inghilterra Edoardo VI fa redigere da una Commissione di teologi il libro delle preghiere e lo promulga come obbligatorio per tutti i fedeli; Maria la sanguinaria invece lo abolisce e in quattro anni manda al rogo 286 eretici, rei di aver pregato in forma diversa da quella voluta dalla regina; Elisabetta poi ridisfa l’opera della sorella, sinchè nel 1559 l’atto di uniformità ristabilisce il libro delle preghiere comuni.
Questo apparente regresso si spiega con quella legge di riduzione [103] al minimo delle associazioni mentali. Dicemmo che in origine la pratica religiosa è intesa nel suo senso realistico: allora dunque sono presenti e associati alla coscienza umana tre distinti stati di coscienza: i sentimenti di devozione al Dio, il desiderio di manifestarglieli con quelle date pratiche, e l’idea delle ragioni per cui queste pratiche sono gradite al Dio. Di questi tre stati di coscienza, l’ultimo a poco a poco si oblitera dall’associazione perchè nessuna utilità o nessun bisogno lo mantiene in vita. Difatti quando si tratta di voler propiziarsi una persona viva, è importantissimo avere presenti le ragioni per cui un dato atto o preghiera gli saranno graditi o sgraditi, perchè bisogna adattare la preghiera al carattere dell’individuo, o alle sue disposizioni del momento, se si vuole riuscire. Ma, trattandosi di antenati morti, di Dei, di oggetti naturali, questa coscienza sempre viva delle ragioni per cui il dato atto o parola è gradita non è più necessaria, non c’è infatti bisogno di cambiare continuamente il modo di propiziazione secondo il carattere, o le disposizioni momentanee del pregato, perchè il morto non si vede, e l’oggetto naturale non ha espressione cangiante; basta quindi continuamente ripeterla nella stessa forma. Quindi a poco a poco col tempo quella idea, che nel periodo della formazione mitologica era necessaria, in seguito diventata inutile si ecclissa e sparisce, finchè di generazione in generazione non rimangono più nella coscienza strettamente associate che il desiderio di propiziarsi il Dio e l’idea che dati atti e parole gli sono graditi: le ragioni per cui gli sono graditi, nessuno sa e nessuno cerca di sapere perchè ciò non è affatto necessario, non essendoci mai bisogno di mutarli, come abbisognerebbe invece se si trattasse di persone vive. In questo caso per un arresto che è nel tempo stesso ideativo ed emotivo e che chiameremo ideo-emotivo il segno della propria venerazione verso gli Dei, diventa esso l’oggetto d’una venerazione particolare.
Così si spiega anche l’enorme conservatorismo di tutte queste formalità religiose, conservatorismo così tenace che noi vediamo l’ebreo servirsi ancora di strumenti dell’età della pietra, il cattolico usare una lingua morta da più che dieci secoli. L’uomo è naturalmente conservatore e non muta le sue idee, le sue abitudini se non quando un estremo bisogno lo urga, cioè se non quando queste idee e queste [104] abitudini non siano più in correlazione colle condizioni della vita e gli producano danni invece che benefici. Ma questo inadattamento, unica causa di mutamento, nelle pratiche religiose non può avvenire specialmente dopo che la coscienza delle ragioni delle pratiche stesse si è spenta: giacchè se si sapesse perchè quelle pratiche sono gradite a Dio, si muterebbero continuamente secondo che l’idea di Dio si perfeziona e si modifica; ma siccome l’osservanza della pratica è basata sopra un’associazione di idee abituali, insinuata in ogni individuo fin dai primi anni, che non corrisponde a condizioni mutevoli di cose, quest’associazione d’idee non può essere mai modificata; quindi nemmeno la pratica non può trasformarsi mai.
9. Un nuovo aspetto più particolare di questo stesso fenomeno vogliamo ancora osservare. L’arresto ideo-emotivo non è talora l’effetto di una lenta riduzione al minimum, che avviene di generazione in generazione in una complessa associazione mentale: talora si fa durante la vita di un uomo, ed è prodotta da una professione per rispetto a una certa serie d’idee e di sentimenti.
È il caso dei burocratici nelle grandi amministrazioni dello Stato e dei Comuni. È noto come uno dei vizi capitali di questa peste delle società invecchiate sia l’applicazione bestialmente letterale dei regolamenti che sono dati loro per guida, debba questa applicazione, fatta senza riguardi alle particolari contingenze di ogni caso che si presenta, condurre a risultati dannosi, dispendiosi, assurdi, ridicoli. La lettera del regolamento, non dovrebbe essere se non il segno approssimativo della volontà del legislatore, che non può dare che una norma generica, essendogli impossibile tutto prevedere, e sulla cui traccia l’impiegato dovrebbe sbrigar bene e giudiziosamente gli affari, mettendoci del suo pensiero quanto basta per interpretare questa volontà in rapporto ai casi speciali: la lettera, invece, del regolamento diventa la regola, la verità, l’assennatezza stessa; non si fa che applicarla, cavandone, con un rapido ragionamento puramente logico, le conseguenze, senza alcun altro riguardo. Non così accade dell’impiegato di case private, che se interpreta ed applica male gli ordini generici del padrone, deve pagare, in un modo o in un altro, del suo: costui non è mai vittima di questa fascinazione operata dalla lettera delle disposizioni regolamentari.
[105]
Perchè? Nel primo caso abbiamo un arresto ideo-emotivo. Per applicare intelligentemente una disposizione generale di legge a dei casi particolari, è necessario un lavoro mentale abbastanza complesso: bisogna rappresentarsi lo scopo ultimo delle disposizioni, i casi più frequenti per cui è stata redatta, le contraddizioni con lo scopo, a cui si giungerebbe applicandola letteralmente al caso particolare, i temperamenti e le modificazioni da apportarsi nell’applicazione. All’idea del fatto speciale bisogna adunque associarne molte altre, per cavarne la conclusione, che regolerà la condotta dell’impiegato. Tutte queste associazioni di idee, sempre rinnovate a ogni nuovo caso, costano fatica: quale interesse ha l’impiegato di una grande amministrazione di compierla? Quando egli abbia sbrigato i suoi affari con intelligenza, il suo guadagno alla fine della sera è lo stesso: quando abbia fatto errori, nessuno si curerà di farglieli pagare. A poco a poco l’individuo si avvezza al processo mentale più rapido dell’applicazione letterale, perchè è quello che implica minor numero di altre associazioni mentali concomitanti: e dopo un po’ di tempo questo processo è diventato così abituale, che l’impiegato è assolutamente incapace di mutarlo, ha perduto la nozione dello scopo a cui deve tendere l’opera sua; non sente più l’ingiustizia e la mostruosità dei suoi errori; la sua intelligenza e i suoi sentimenti di soddisfazione e di dovere compiuto si arrestano alla letterale applicazione della legge, esclusa ogni idea di scopi più vasti e ogni sentimento di più alto dovere.
Non così accade dell’impiegato dipendente da un privato, perchè in lui il pungolo dell’interesse tien vive e deste in maggior numero che sia possibile quelle concomitanti associazioni mentali, per cui la lettera di un ordine non s’innalza dal grado di segno approssimativo, al grado di verità e convenienza assoluta, al grado cioè di simbolo mistico.
10. Lo studio di questi curiosi fenomeni del simbolismo, mentre allarga le nostre cognizioni sull’immensa importanza che hanno avuto i simboli nella evoluzione umana, ci permette da un altro lato di calcolare alcuni svantaggi della civiltà. A dispetto degli inni ottimisti in onore, e delle elegie pessimiste in vituperio della civiltà, la scienza non ha ancor drizzato un bilancio rigoroso, in cui si paragonino [106] tra loro i danni e i vantaggi del progresso; una statistica delle perdite subite e degli acquisti fatti, da cui si ricavi quanto l’umanità civile ha realmente guadagnato dopo tanti secoli di battaglie e di lavoro: e quindi gli inni come le elegie non possono essere che l’espressione di un sentimento particolare, che non ha per origine un’osservazione coscienziosa dei fatti. La teoria del simbolo indica una di queste perdite, perchè l’arresto ideo-emotivo per cui il simbolo e la pratica religiosa si convertono in oggetto di adorazione e di venerazione, si fa assai più spesso nei popoli civili che nei selvaggi. Tra questi la religione è spesso, come dicemmo, più cosciente, più realistica e in un certo senso più spirituale che in molti popoli civili: sia perchè la religione si trova allora nel suo periodo delle origini, e tutte le formazioni, dalle chimiche alle sociologiche, allo stato nascente sono più attive, sia perchè allora nei sentimenti religiosi si concentra il massimo dell’attività psichica, certo è che i selvaggi hanno cognizione dello scopo delle pratiche religiose, e a modo loro, come possono, ma coscientemente, adorano Dio. Con la civiltà, le preoccupazioni dello spirito umano diventano più numerose e quindi tra esse la religione occupa un posto minore; di più il processo normale dell’arresto ideo-emotivo entra in azione, e a poco a poco la religione diventa formalistica, consuetudinaria, quasi incosciente; e per ciò anche estremamente conservatrice.
Se però queste decadenze del simbolo nella civiltà si restringessero ai riti religiosi, il danno non sarebbe poi straordinario: ma un’altra e più grave ne noteremo nel diritto. Evidente riprova che un progresso assoluto non esiste; che ogni progresso è più o meno compensato da concomitanti regressi, e che il vero indice dell’evoluzione è dato dalla differenza tra i progressi e i regressi. Superiori per certi lati infinitamente ai popoli selvaggi, per certi altri aspetti noi stiamo loro al disotto.
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1. Vedemmo come molti simboli che sembrano adesso così strani e incomprensibili, non sono che sistemi di segni per fissare e comunicare le idee, quali ne usiamo anche noi, ma solo in forma più primitiva. Una nuova conferma della teoria ci è data dal fatto che quei simboli ritornano anche oggi, per il continuo ripullulare degli atavismi, in certi individui e in certe classi sociali.
2. La pictografia, ad es. cioè il sistema primitivo della scrittura, ritorna nei criminali, che tanto hanno di atavico nel loro carattere. Essi esprimono in certi momenti il loro pensiero con la figura, come hanno dimostrato specialmente que’ Palimsesti del carcere così genialmente raccolti dal Lombroso. Uno per manifestare il proposito di suicidarsi, disegna rozzamente un uomo appiccato alle sbarre del carcere. Un altro, complice in una grassazione, ricama sopra un panciotto una scena che doveva essere secondo lui una difesa pictografica, perchè con essa pretendeva di essere assolto: un terzo figurava il complice che ruba l’orologio, il derubato che fugge e sè stesso che non ha se non la catena; in alto disegna gli stivali come firma professionale del suo mestiere. C. L. sopra un vaso incide rozzamente un grassatore, forse lui stesso, che svaligia un passeggero dopo avergli pranzato assieme; e l’arresto del reo, mentre passeggia con la valigia. Troppmann, come è noto, fece un disegno in cui rappresentava il suo delitto, sebbene egli fosse letterato e poeta. [108] In un altro vaso un gobbo fa la storia dei suoi amori con due donne che ingravida e che risentitesene ricorrono al tribunale.
Anche il tatuaggio è quasi sempre pictografico: sono o figure reali di oggetti o di una loro parte o figure ricavate da metafore in uso nel linguaggio, che riportano qualche idea a un oggetto materiale; o figure che per associazione ricordano un dato oggetto o persona. Così un criminale che si era tatuato la propria storia sul corpo, ricordò l’amante disegnando un cuore; le guardie e i propositi di vendetta contro di esse con un elmo; un amico abile suonatore di chitarra con un liuto; la nave su cui fece naufragio con un’ancora; il suo trapasso dall’esercito dei delinquenti in quello della polizia con una corona reale, segno del potere politico. Un altro porta sul braccio destro, 2 colombe, emblema di amor puro (figure ricavate da metafore del linguaggio) — una sirena — le iniziali del suo nome e di quello del suo amante — un selvaggio, ricordo del suo soggiorno in Africa — una donna, vestita da saltimbanco, con una colomba nella mano destra, ricordo della sua terza amante — le insegne del suo mestiere di fabbro — un tabernacolo: sul braccio sinistro, due lottatori, ricordo del tempo in cui fu saltimbanco — la testa di uno zuavo (ricordo della legione).
Questa tendenza è indubbiamente atavica e costituisce un ritorno a sistemi di segni perduti, che è forse favorito da alcuni caratteri speciali dei criminali. In costoro le passioni sono violente e perciò la parola è uno strumento troppo astratto perchè renda l’intensità dei sentimenti e delle idee eccitate da coteste passioni. Di più, siccome i criminali sono gente fuori della società, le cui passioni ed idee sono per dir così sempre solitarie e non possono trovare accordo e simpatia con le idee e sentimenti altrui, anche il mezzo con cui esprimono questo stato di anima deve essere speciale, non quello che serve a esprimere le idee comuni di tutti gli altri. La pictografia è spesso una specie di crittografia del criminale con se stesso; un modo con cui egli fissa le idee e i ricordi suoi, che altri non possono e non debbono conoscere, che egli tiene tutte per sè in una maniera conosciuta da lui solo. Così uno che portava tatuato sul braccio un gruppo di Salomone, una sirena e una croce, spiegava il tatuaggio così: L’uno lo tengo per ricordarmi quando fui nel 1879 [109] carcerato per assassinio in Egitto; la sirena con un’ancora, per ricordarmi che fui condannato a 3 anni di carcere a Costantinopoli; la croce feci per non tornare in carcere, ma inutilmente. E un camorrista per riattizzare in sè il sentimento della vendetta contro una amante che l’aveva tradito, si disegnò un limone (simbolo dell’amore sventurato, dolce dapprima e agro poi) e una sigla V T = vendetta.
Si noti qui poi la legge dell’inerzia mentale: il tatuaggio è l’artificio con cui la violenta passione previene in anticipazione il pericolo della sua rapida estinzione; perchè il segno tatuato non è che la sensazione che risusciterà in avvenire in sentimenti languenti, essendo stata con essi associata al momento del disegno. Quindi il tatuaggio è l’effetto anche per questo rispetto delle passioni violente e deve essere estremamente dinamogeno, disegno cioè e non scrittura. L’uomo medio invece, che poco o nulla ha da ricordare, non ha bisogno di questo artificioso sistema di segni, che gli riporti continuamente sotto gli occhi i ricordi che fuggono rapidi nel passato.
3. Curioso è poi che nel mondo dei delinquenti troviamo anche il simbolo giuridico, in quella forma atavica che notammo nel diritto primitivo, e ciò specialmente nelle associazioni di malfattori, che hanno anch’esse, com’è noto, i loro ordinamenti sociali. Gli Chauffeurs francesi (celebri bande di briganti della fine del secolo scorso e del principio del presente) avevano una cerimonia mimica, per la celebrazione del matrimonio: i due sposi andavano innanzi alla banda radunata; nel mezzo c’era una corda tesa ad una certa altezza. Il capo domandava allo sposo: Straccione, vuoi tu la stracciona? Sulla risposta affermativa, aggiungeva: E allora salta. Lo sposo saltava la corda; egual domanda ed eguale comando eran fatti alla sposa: dopo, i due erano maritati. Anche qui noi non abbiamo altro che un sistema di documentazione più rozzo: per fissare nella opinione pubblica l’idea del matrimonio contratto, si facevano assistere i banditi ad una scena, che ne risvegliava per associazione l’idea. La scena, così come era immaginata, ha un po’ del selvaggio e dello strano: e può essere stata suggerita dalla vita di azione, di ginnastica e di movimento in aperta campagna, che debbono per forza fare le bande di briganti.
[110]
Analoga a questa è la cerimonia di introduzione della camorra, che è relativamente agli scopi della società un atto giuridico, perchè è la conclusione del patto d’associazione tra i vecchi camorristi e il nuovo.
«Riunita la Società — scrive un accurato storico della camorra, l’Alongi — il padrino del neofita, gli fa le ultime raccomandazioni: — Sei ancora in tempo di ritirarti; bada a quello che fai. Per essere dei nostri bisogna avere umiltà e sangue freddo, sapere con belle maniere convincere le persone a dare quello che si vuole, non mostrar superbia, non riscaldarsi, anzi chiudere un occhio su certi piccoli inconvenienti. — E poichè quello si mostra pronto a tutto, ne avverte la società, già riunita.
Il capo sta in mezzo con a destra il contaiuolo (se c’è), e quindi il primo voto (socio anziano) continuando in circolo per ordine di anzianità, in guisa che l’ultimo ammesso stia alla sinistra del capo. Tutti stanno immobili con le braccia al sen conserte, ed è vietato fumare, essere armati, e perfino sputare dentro il circolo.
Il capo (facendo un inchino). Buon giorno a Signori e Società riformata (riunita). Sapete, fratelli, perchè si è riunita oggi la Società? Con permesso del contaiuolo, del primo voto e del rimanente della Società si deve battezzare un giovane che vuol essere nostro compagno.
Primo voto. — (Chi è stu tale?) Come si chiama?
Capo. — Tal dei tali, lo conoscete, credete che sia un buon giovane?
(Uno alla volta rispondono naturalmente sì, perchè i precedenti del neofita sono noti).
Capo (al socio di sinistra o ultimo voto). — Distaccatevi e chiamatelo.
Ultimo voto (tornando coll’aspirante). — Buon giorno, la Società è oggi riunita per voi, entrate con tutte le regole di società.
Neofita (a capo scoperto ed a tre passi di distanza). — C’è permesso?
Nessuno risponde per tre volle.
Neofita. — V’impongo sul titolo d’umiltà: c’è permesso?
Capo. — Entrate con tutte le regole di società.
[111]
Neofita. — Fatemi grazia, la Società fa capo in trino o capo in testa?
Capo. — Abbiamo due picciotti alla testa.
Neofita. — Riverisco i due picciotti di testa, il capo e tutta la Società.
Capo. — Copritevi.
Neofita. — Non basto a ringraziare i due picciotti, il capo e tutta la Società.
Capo. — Avete disturbata la Società per vostra causa, che desiderate?
Neofita. — Questa mattina mi sono alzato di bell’anima e di bello core e mi son messo a rapporto col giovinotto onorato di giornata per vedere se c’è un posto da occupare, se no torno a fare quello che facevo prima.
Capo. — Sapete voi che ci vuole per fare il giovinotto onorato? Passerete guai sopra guai; dovrete obbedire a tutti gli ordini dei picciotti e dei proprietari e portare loro utile e guadagno.
Neofita. — Se non volevo passare guai non avrei incomodata la Società.
Capo. — Va bene, distaccatevi (ai rimasti). Come vi sembra possiamo passare ad una votazione?
All’affermativa fa chiamare il neofita che entra col cerimoniale primitivo.
Capo. — La Società vi crede meritevole di occupare un posto. Desiderate altro?
Neofita. — Non basto a ringraziare ecc., non bramo altro che un bacio da sinistra a destra.
Capo. — Fate i vostri doveri.
Il neofita bacia la mano ai due picciotti, e la bocca agli altri cominciando dal meno anziano; giunto al capo lo bacia due volte.
Capo. — Avete dato un bacio a tutti; perchè a me ne deste due? Son forse più bello degli altri?
Neofita. — Ve ne ho dati due perchè portate due votazioni: una da sinistra a destra e una da destra a sinistra, e perchè siete specificatore e dichiaratore d’ogni cosa (giudice).
Capo. — Desiderate altro?
[112]
Neofita. — Bramerei sapere se vi sono compagni piantati o puniti per pregare la Società di graziarli. E poi vorrei conoscere i patti.
Capo. — Le grazie saranno accordate come è di regola; i patti sono questi: 1º Non andare cantando o facendo chiassi per la via; 2º Rispettare i picciotti e qualunque disposizione essi diano; 3º Obbedire pure i camorristi e fare le commissioni loro.
Dopo di che il capo mette fuori un mazzo di carte e i giovanotti simulano una giocata; il nuovo ammesso riconosce che è di bacio e non di divisione, cioè che ha con la Società sole relazioni di solidarietà morale, senza diritto ai guadagni, e paga una regalia in denaro, se in carcere, in una divertita, se in libertà o alle isole, per ringraziare della sua ammissione e festeggiarla[158].
A parte il simbolismo speciale di vari fra i numerosi atti descritti più sopra, che in chi sa quali accidentali associazioni di idee hanno avuto origine, il simbolismo complesso di tutta la cerimonia è evidente. Noi uomini civili e progrediti, quando vogliamo far conoscere a chi vuole entrare membro di una associazione i suoi diritti e doveri, gli diamo gli statuti stampati: egli leggendo ricava l’idea dei suoi impegni e la fissa bene nella sua memoria; accettando poi di entrare, accetta tacitamente anche le prescrizioni e gli obblighi. Ma una società criminale non può essere che una forma inferiore di società, con struttura e funzioni primordiali; quindi questa formalità dell’accettazione che in noi ha assunte forme così astratte, resta in forme più sensibili e rozze; invece di dare uno statuto scritto, si ricordano con una serie di discorsi e di atti i doveri a cui si sobbarca l’iniziato. Tanto più poi che, come nei cervelli rozzi o almeno parzialmente meno sviluppati, la figura risveglia l’idea più potentemente che la parola scritta, così gli atteggiamenti complicati di superiorità in chi accetta, di inferiorità in chi è accettato come novizio, l’aspetto dell’assemblea muta, a braccia conserte, imprimono nella psiche dell’iniziato il sentimento e l’idea dei suoi doveri di soggezione, negli iniziatori quello del diritto di supremazia più fortemente, che non lo farebbe un’arida scrittura su cui si dicesse che tali e tali altri [113] sono i doveri del neofita. Una simile scrittura non potrebbe risvegliare che una pallida idea: mentre gli atteggiamenti esteriori della rimessione risvegliano proprio il sentimento dell’inferiorità per la legge di associazione tra gli stati psichici e la loro espressione.
4. Analogo è l’atavismo del simbolo nei pazzi. Per la corrispondenza tra lo stato della ideazione e il sistema dei segni, come nel criminale a uno stato in parte rozzo di idee corrisponde uno stato primitivo di segni; nel pazzo a una condizione delirante della mente corrisponde un sistema, per dir così, delirante di segni. È per questo che i pazzi raramente usano i segni ordinari della scrittura; e spesso non si contentano nemmeno, come i criminali, della figura, ma inventano segni particolari, che mescolano poi alle figure, alle parole, e queste sovente alterate. Così un certo Ga... un malato di delirio di grandezza, di cui parla il Lombroso, che scriveva continuamente lettere, ordini, cambiali, ora al sole, ora alla morte, ora alle autorità civili e militari, usava un suo sistema particolare di simboli grafici, che consisteva specialmente in grosse lettere maiuscole, a cui di tratto in tratto erano frammischiati segni e figure indicanti le persone e le cose; le parole erano poi separate da uno o due grossi punti e d’ogni parola non erano tracciate che poche lettere, quasi sempre le sole consonanti.
Ma il più curioso esemplare di questo complesso e delirante simbolismo che corrisponde a uno stato delirante delle idee, è l’intaglio eseguito da un pazzo affetto di delirio sistematizzato, di cui il Morselli diede un’esatta descrizione[159]. Questa statuetta porta in testa una specie di trofeo ed ha poi addosso oppure vicino oggetti intagliati ognuno dei quali è espressione emblematica delle idee deliranti del Z. Ad esempio vi esiste il calamaio con cui egli si farà forte contro i tiranni; l’uniforme che veste è quello portato da lui nelle guerre dell’indipendenza; le ali ricordano il fatto che quando cadde in pazzia, vendeva sulla Piazza di Porto Recanati i proprii lavori, tra cui alcuni angeli intagliati, a un soldo l’uno: l’elmo con la lanterna alla visiera è l’emblema dei carabinieri che lo condussero al manicomio; [114] il sigaro messo di traverso rappresenta il disdegno contro i re ed i tiranni; l’attitudine della gamba ricorda la frattura che egli si fece precipitandosi dall’alto.
Ma il più notevole è il trofeo posto sulla testa della statuetta; che è l’espressione grafica di questa canzonetta:
Un veleno ho preparato.
Due pugnali tengo in seno:
Questo viver disgraziato
Finirà una volta almeno?
T’amerò sino alla tomba
E anche morto t’amerò.
La campana lamentosa
Sonerà la morte mia;
Ed allor tu udrai curiosa
Quella funebre armonia.
T’amerò ecc. ecc.
Una lunga e mesta croce
Nella via vedrai passar;
Ed un prete sulla forca
Miserere recitar.
T’amerò ecc. ecc.
Ciascuna parte della canzonetta ha nel trofeo un simbolo; così della prima strofa la parola veleno è rappresentata dalla coppa; i due pugnali non mancano; il finir della vita e la tomba sono rappresentati da una specie di sarcofago o cassetta chiusa; l’amore dai mazzetti di fiori. Della seconda strofa la campana è rappresentata tal quale; la funebre armonia da due trombe incrociate in basso. La croce della terza e il prete (o cappello da prete) della quarta completano il quadro a cui non manca che la forca sostituita da una forchetta. Si veda dunque quale aggrovigliamento nel simbolo, in perfetta analogia con l’aggrovigliamento del delirio.
Questi fatti sono tutti importanti perchè ci dimostrano indirettamente la verità della spiegazione data più su dei simboli giuridici, facendo vedere come i sistemi di segni variano con il variare delle condizioni mentali e quindi delle idee, che debbono esprimere. Se questi arabescati simboli dei pazzi non sono che l’equivalente delle nostre scritture, quali sono capaci ad esprimere una condizione d’idee delirante; anche il simbolo giuridico primitivo deve essere [115] l’equivalente delle nostre formalità giuridiche, quale ci voleva e si poteva creare ad esprimere un complesso di idee molto più semplici sui negozi giuridici.
5. V’è un altro fenomeno della patologia dello spirito, che è importante esaminare nello studio del simbolo, perchè ci mostra, riconfermata dalla patologia, una legge normale della psiche umana, con una di quelle reciproche dimostrazioni dalla patologia alla fisiologia, che specialmente nelle scienze biologiche hanno gettato tanta luce sui più oscuri fenomeni dell’organismo umano. Noi vedemmo che uno dei processi di formazione del simbolo è quello di prendere la parte per il tutto, facendola segno o simbolo del tutto; e come questo processo non sia per nulla intenzionale, ma basato sopra la naturale riduzione delle sensazioni, delle immagini, dei sentimenti troppo complessi. Una conferma di questa legge ci viene da alcune forme morbose d’amore, in cui questa riduzione è spinta così all’estremo che la parte sostituisce il tutto; e che perciò ci mostrano confermata la legge generale, come molte altre malattie, che non sono se non una tendenza normale troppo esagerata.
Già dicemmo che anche nell’amore normale esiste un vero processo di riduzione; perchè sempre è un qualche pregio particolare della donna che domina e sormonta sugli altri nell’ammirazione dell’innamorato. Ma in tal caso questa ammirazione particolare non è per dir così che un elemento dell’amore; è solo l’eccitatore più forte del desiderio dell’amplesso. In altri casi invece essa assorbisce tutto e diventa per dir così tutto l’amore.
In una civiltà in cui la donna non mostra nude più che la faccia e le mani, gli eccitamenti sessuali all’uomo anche sano devono irradiare in gran numero dall’abito, che coprendo e spesso alterando la bellezza del corpo, viene ad essere più importante anche di questa. Montaigne osservava, parlando dell’amore: «Certes, les perles, et les brocardes, y confèrent quelque chose, et les filtres, et le train». Rousseau confessa che le modiste, le domestiche, le piccole venditrici non lo tentavano; gli ci volevano le signore: «Ce n’est pourtant pas du tout la vanité de l’état ou du rang qui m’attire, c’est la volupté; c’est un teint mieux conservé... une robe plus fine et mieux faite, une chaussure plus mignonne, des rubans, de [116] la dentelle, des cheveux mieux ajustés. Je préfererai toujours la moins jolie ayant plus de tous cela».
Ma in alcuni malati questa riduzione dello stimolo si spinge così oltre, che l’oggetto di vestiario si sostituisce nei loro desideri alla donna stessa. Ve ne sono di quelli che rubano i fazzoletti delle signore per le vie, e provano il più intenso dei piaceri sessuali a masturbarsi con quelli. Ve ne sono altri che invece sono eccitati dagli stivaletti. Uno cercava di veder i chiodi delle scarpe femminili; esaminava con cura sulla neve o sulla terra umida le traccie dei loro passi; ascoltava il rumore che facevano sul selciato, e trovava un ardente piacere erotico a ripetere alcune parole destinate a ravvivare l’immagine di questi oggetti e a congiungerla con l’immagine della donna, per es., la frase: «ferrare una donna» e a masturbarsi innanzi alle vetrine dei calzolai. Un altro amante degli stivaletti, diceva: «Bisogna che siano stivaletti o scarpette di cuoio, possibilmente nero, e con i tacchi altissimi, insomma stivaletti e scarpine elegantissime: la forma che fin da bambino mi piaceva di più sono gli stivaletti alti da abbottonarsi ai lati ed elegantissimi».
In altri invece il particolare assorbente è una di quelle parti del corpo, che il nostro pudore a oltranza lascia ancora scoperte. Un uomo non era eccitato che dagli occhi delle donne; avendone trovata una con occhi grandissimi, voleva sposarla. Un altro era eccitato dalle mani, e ancor più dalle mani adorne di gioielli (eccitazione dell’oggetto di ornamento aggiunto a quello dell’organo); però la riduzione non era ancora riuscita a un isolamento compiuto, perchè una bella mano e un brutto viso gli facevano male. Vi sono poi gli amanti dei riccioli, delle ciocche di capelli: «Certi individui, scrive il Macé, si cacciano nella folla dei grandi magazzini di novità, si avvicinano alle donne e alle ragazze, i cui capelli ricadono sulle spalle e con delle forbici ne tagliano delle ciocche. Uno di costoro diceva: «Per me la ragazza non esiste, sono i suoi capelli che mi attirano».
Non in tutti i malati, l’aberrazione raggiunge intensità eguale: in alcuni il particolare, pure dominando con straordinaria potenza, non è ancora divenuto la condizione sine qua non dell’eccitamento erotico; in altri invece sì, e la più splendida, la più giovane donna li [117] lascierebbe freddi, se non avesse quella qualità o quell’oggetto da cui solo sono ormai suscettibili di essere eccitati.
Certo si tratta qui di malati, ma la straordinaria intensità del fenomeno ci mostra come sia profonda la tendenza della psiche umana a ridurre le sensazioni, le immagini, i sentimenti; a scambiare la parte con il tutto; a concentrare tutta la sua energia sul particolare, che riesce così più potente nella sua azione. Certo nei processi normali di riduzione, da cui esce il simbolo, questo assorbimento che fa il particolare di tutta la cosa in sè stesso, non è così intenso come in questi casi morbosi, appunto perchè questi sono una esagerazione. Ma in ogni modo i fenomeni del simbolismo per riduzione e questi fenomeni della patologia mentale si illuminano a vicenda.
[119]
Questo studio di alcuni fra i più importanti fenomeni del simbolismo, non può essere privo di applicazioni pratiche, se è vero che ai traviamenti del simbolo si connettono molti e dolorosi traviamenti della condotta umana. Lo studio fatto più sopra sui simboli mistici e sull’arresto ideativo ed emotivo che li produce, si è quasi tutto raggirato su simboli che oggi sono estinti o che hanno perduta gran parte della loro importanza; ma con questo non si cercò che di agevolare la ricerca, perchè trattandosi di simboli già quasi trapassati ed esaminati, per dir così, da lontano, più facile era di vedere la confusione loro con la cosa che avrebbero dovuto rappresentare: ciò però non toglie che i simboli mistici siano numerosissimi anche oggi, sebbene noi, per la lunga abitudine di considerarli come fatti normali, quasi non ce ne accorgiamo. La massima parte delle idee giuridiche consacrate nei nostri Codici ed il modo con cui sono applicate, quasi tutta insomma la giustizia, non è che un gigantesco simbolo mistico, non è che l’effetto d’una dolorosa confusione del segno con la cosa, sorgente di infiniti mali sociali e sopratutto di questo massimo dei mali: di aver cioè una giustizia che tormenta forse più che non benefichi.
Che la giustizia, quando non è addirittura inumana, sia spesso fallace, fu detto da molti: ma quanti hanno cercato la ragione per cui uomini spesso di intelligenza superiore, che hanno consumato la vita a speculare le sottili differenze tra il torto e il diritto, dànno spesso sentenze che urtano brutalmente il sentimento di giustizia, anche nella gente più umile? Pochi o nessuno. Eppure anche se si volesse sostenere che questi rozzi responsi del sentimento di giustizia [120] dell’uomo comune siano un prodotto inferiore rispetto alle alte meditazioni dei giuristi, molto meglio sarebbe che in questa materia non si trascurasse il bene per la ricerca del meglio: giacchè a che cosa serve una giustizia superiore che scontenta coloro a cui deve essere applicata? Ma del resto questa giustizia che deriva nelle opere giuridiche dalla tradizione intellettuale del diritto romano e dalla tradizione professionale della magistratura, è, come vedremo, tutt’altro che una giustizia superiore. L’arresto ideo-emotivo ci spiegherà come e perchè essa sia una giustizia inferiore.
Si noti anzitutto che il sentimento della giustizia è uno dei più astratti e complessi di tutti: vale a dire che i processi mentali con cui esso si esplica sono tra i più faticosi. «La complessità del sentimento di giustizia, scrive lo Spencer, si fa manifesta allorchè prendiamo ad osservare che esso non riguarda soltanto piaceri e dolori concreti, ma principalmente invece alcune di quelle circostanze che permettono di ottenere i piaceri e di prevenire od evitare i dolori. Dappoichè il sentimento egoistico di giustizia si soddisfa col mantenimento di quelle condizioni, che permettono di conseguire senza impedimento le soddisfazioni, e s’irrita quando quelle condizioni vengono disturbate, ne risulta che, per essere eccitato, il sentimento altruistico di giustizia ha bisogno non solo delle idee di quelle soddisfazioni, ma anche delle idee di quelle condizioni che in un caso sono conservate e nell’altro disturbate o interrotte. È perciò evidente che la potenza di rappresentazione mentale, per essere capace di questo sentimento in forma sviluppata, dovrà essere relativamente grande. Quando i sentimenti coi quali dovrà esservi simpatia saranno semplici piaceri o dolori, potranno occasionalmente manifestarli gli animali gregari più elevati; essi sentono ogni tanto, come le creature umane, la pietà e la generosità. Ma il concepire simultaneamente, non solamente i sentimenti che si producono in un altro, ma anche quel complesso di atti e di relazioni compresi nella produzione di tali sentimenti, presuppone un’accumulazione contemporanea di elementi molteplici nel pensiero, ciò che una creatura inferiore è incapace di fare»[160].
[121]
Ora noi troviamo che nella pratica è data al giudice, perchè più facilmente trovi ed applichi la giustizia, una raccolta di disposizioni generali sotto forma di codice, che sono l’ultimo frutto della lunga esperienza e del lungo lavoro dei giureconsulti romani, salvo pochi e minimi ritocchi. Di queste regole alcune hanno una ragione nel ripetersi frequente o nel possibile verificarsi di certi casi a cui provvedono: altre sono la deduzione di antiche idee giuridiche appartenenti per la loro origine a un periodo di esperienza primitivo e che non sono ammesse oggi se non per quella estrema venerazione che si attacca a tutte le cose antiche. Ma siano vive ancora o avanzi mummificati di idee passate, queste regole generali, per la loro natura, non possono che riguardare i casi più frequenti e comuni di una certa serie di questioni: i casi speciali, quelli cioè che non rispecchiano che parzialmente la disposizione generale, e che si presentano sempre assai numerosi, specialmente quando la vita sociale si complica, non possono essere risolti con piena giustizia applicando il principio generale, perchè contengono elementi parziali di fatto che mutano più o meno profondamente i termini della questione e quindi anche la soluzione, che non può più essere quella ammessa dalla disposizione generale.
Ora che dovrebbe fare il giudice per decidere con giustizia i casi numerosissimi che gli si presentano? Dovrebbe dare alle disposizioni della legge quel valore che esse hanno realmente, considerarle cioè come il segno approssimativo ed imperfetto della volontà del legislatore, sulla cui guida decidere, integrandole nei casi particolari con il proprio sentimento di giustizia: giacchè per divisioni e suddivisioni in cui si biforchi la regola generale, si presenteranno sempre dei casi in cui il giudice, per esser giusto, dovrà fare appello dalla autorità delle norme già stabilite all’autorità della propria coscienza, interrogando il suo sentimento di giustizia. Noi troviamo infatti che anche i giureconsulti romani tenevano continuamente presente che il diritto scritto doveva essere integrato da quello che essi chiamavano il diritto naturale e che non era se non l’espressione di quel sentimento di giustizia che si ribellava contro l’applicazione di regole generali a casi particolari, che non quadravano perfettamente. «Il diritto naturale, scrive il Sumner Maine, era da essi inteso come un sistema [122] che doveva gradatamente assorbire le leggi civili, senza sostituirle sinchè non erano abrogate... Il valore e l’utilità di questo concetto nasceva dal tenere essi presente alla mente un tipo di diritto perfetto e dall’ispirare la speranza di avvicinarvisi indefinitamente»[161].
Ma che accade invece? Un poco perchè la legge stessa vieta una troppo ampia interpretazione, ma sopratutto per la tendenza umana già così forte e favorita in questo caso dalle leggi, a ridurre al minimo il numero delle associazioni mentali necessarie ad un dato lavoro, prevale la interpretazione letterale, a scapito di ogni considerazione di giustizia. Le disposizioni della legge, che come dicemmo, non dovrebbero essere che il segno approssimativo e imperfetto della volontà del legislatore, sulla cui traccia il giudice dovrebbe spingersi per arrivare con le forze proprie alla giustizia, diventano la giustizia stessa: applicarle, senz’altri riguardi, è il dovere del magistrato. Per giudicare con giustizia il magistrato dovrebbe dar libero corso, a ogni caso che gli si presenta, al suo sentimento naturale di giustizia, cioè a quell’associazione di idee e di sentimenti, di cui vedemmo poco fa la complessità: dovrebbe confrontare il responso della sua coscienza con le applicazioni usuali e più frequenti del principio generale della legge; e ove discordino, cercare le ragioni del disaccordo e penetrando nello spirito del principio, associando l’idea del caso più frequente per cui fu fatta e le differenze del caso presente, modificarne l’applicazione a seconda del proprio sentimento di giustizia. Tutto questo è un lavoro assai faticoso, complicato e per di più diverso per ogni caso singolo: molto più semplice è applicare le disposizioni generali cavandone le conseguenze logiche, senza altre considerazioni e associazioni concomitanti di idee o di sentimenti, perchè in tal caso non v’è da seguire che una catena più o meno lunga di ragionamenti. Per un poco che la mente continui in questo esercizio, l’arresto ideo-emotivo si produce rapidamente; il pensiero si avvezza a considerare soltanto i puri rapporti tra il caso speciale e il principio generale, per trovar modo di applicare questo, senza che le associazioni collaterali di altre idee si formino; il sentimento alto e complesso della giustizia si riduce a un sentimento di soddisfazione [123] per l’applicazione logica intera e compiuta del principio generale quando possa farsi, escludendo da questa la rappresentazione del torto fatto alla vittima e l’idea delle ragioni per le quali è stato arrecato questo torto. Le sentenze più ingiuste e nello stesso tempo più giuridiche, sono create con questo sistema, per cui la lettera della legge, che non dovrebbe essere che un segno approssimativo, diventa la giustizia stessa, cioè un simbolo mistico.
Esamineremo, per dimostrar meglio il fenomeno, alcune sentenze su casi speciali. L’art. 1228 del Codice Civile sancisce, in materia di danni da pagarsi per una obbligazione non adempiuta, che il debitore non sia tenuto se non ai danni che sono stati preveduti o che si potevano prevedere al tempo del contratto: disposizione in teoria giusta, perchè vuole impedire gli illegittimi lucri che il danneggiato potrebbe realizzare prevalendosi, ad es., di impreveduti rialzi nel valore della cosa che il debitore doveva prestargli. Così, per es., se A pattuisce di dare a B per un certo giorno una data quantità di merce e non mantiene l’obbligazione, e dopo pochi giorni dal non adempiuto contratto, questo genere di merce, per un accidente qualunque, decupla il suo valore, sarebbe ingiusto che A fosse tenuto a pagare a B, come danno, questo valore dieci volte raddoppiato per la ragione che B, avendo in mano la merce, avrebbe potuto venderla: è questo un principio che il sentimento di giustizia approva, perchè non applicandolo si potrebbe andare a conseguenze enormi. Tale è il principio generale giustissimo, che però nelle applicazioni si falsa. Una Ditta di Milano fa un contratto con una Ditta tedesca per avere da questa, entro un dato termine, una provvista di poutrelles in ferro: la Ditta tedesca non mantiene l’impegno e la Ditta di Milano, che si era con altro contratto impegnata di fornire ad un’altra Casa quelle poutrelles, deve pagare a questa una penale di 450 lire. Intenta lite allora alla Casa tedesca per avere la rifusione dei danni, e domanda di poter provare con la prova testimoniale che essa dovè pagare le 450 lire di penale, per ottenerne il rimborso: ma la Ditta tedesca si oppone, sostenendo la irrilevanza della prova medesima e basandosi per questo sull’articolo 1228, poichè si trattava, diceva l’avvocato, d’un danno che essa non poteva aver preveduto, non essendo stata avvisata dalla Ditta italiana di questo contratto ulteriore e della penale stabilita, ed [124] essendo impossibile che essa prevedesse una così speciale eventualità di danno. Il Tribunale aveva questa volta giudicato con giustizia, sostenendo che la «legge non esige che siano preveduti o che si possano prevedere singoli casi, ma solo vuole che le parti siano in caso di poter desumere che dal loro inadempimento possa scaturire un pregiudizio agli interessi dell’altro contraente: sono le remote ed accidentali verificazioni che non si possono prevedere, e non quelle che procedono per l’ordine naturale delle cose, che sono conseguenze immediate e dirette dell’inadempimento dell’obbligazione». Dava quindi ragione alla Ditta milanese. Ma la Cassazione di Torino (Sentenza del 2 settembre 1890) censurava ed annullava la deliberazione, sostenendo che ci doveva essere la previsione precisa del danno seguito, e che il giudice non ha altra autorità che quella di decidere se in linea di fatto questa previsione esistesse. «Il legislatore... ha sancito solamente che il debitore non è tenuto che ai danni stati preveduti o prevedibili al tempo del contratto, ed ha perciò lasciato al giudice del merito, trattandosi di una ispezione di fatto, il decidere, per il complesso delle circostanze, se una data conseguenza dannosa sia stata preveduta od avesse potuto esserlo». È evidente quindi che in tal modo si dava ragione alla Ditta tedesca e si negava alla Ditta italiana ogni diritto ad avere un indennizzo. Ora, chi non sente l’ingiustizia di una simile decisione? L’applicazione esatta, logica di un principio generale giusto in sè e astrattamente, ma che, come tutti i principii generali, non riguarda che un certo numero di casi, siano pure questi i più frequenti, conduce a conseguenze che urtano contro il sentimento di giustizia; e ciò per l’arresto ideo-emotivo acquisito e divenuto abituale nel giudice per la lunga consuetudine professionale.
Nel Diritto civile italiano sono passate dal Diritto romano parecchie idee molto sottili sulla capacità di avere diritti, secondo le quali gli esseri non ancora nati ne sono totalmente incapaci; idee che, per quanto a prima vista sembrino puramente teoriche, pure hanno talora conseguenze pratiche importantissime e possono dar luogo a liti interminabili e costosissime. Ma il Codice Civile italiano ha fatto una deroga al principio della incapacità giuridica dei non-nati, permettendo che i figli nascituri possano essere dichiarati eredi, forse per scopi di utilità sociale: ora si supponga che un padre, impaurito della [125] prodigalità del proprio figlio, lasci erede non questo, ma i figli futuri di lui, e metta così al sicuro il patrimonio familiare: supponete ancora che questo figlio prodigo, consumato tutto il suo, domandi che sulla sostanza ereditata dai suoi figli futuri gli siano passati gli alimenti: non sembra a tutti che per un certo senso d’equità la domanda si debba accogliere? Per colpevole che sia un uomo nella sua dissipazione, ripugna di farlo morire di fame accanto ai tesori che aspettano i suoi figli di là da venire, quando detraendo una piccola parte dei redditi, si può toglierlo almeno dalle estreme strettezze: eppure, portata la cosa innanzi ai magistrati ed esaminata alla luce della patria legislazione, la soluzione non fu così semplice come a prima vista parrebbe. Talora la domanda fu accolta, ma non in nome di questo sentimento di equità, che nelle coscienze non offuscate da viziosi e abituali procedimenti mentali, dà così chiaro, almeno in questo caso, il suo responso: bensì, filando una serie di ragionamenti molto sottili, che da altri veniva confutata con sillogismi altrettanto capziosi. Presentatosi un caso analogo a quello supposto innanzi alla Corte d’Appello di Napoli, essa decise (Sentenza 4 dicembre 1890) favorevolmente alla domanda del padre, sostenendo che «se i figli nascituri sono capaci del diritto di succedere, sono passibili del dovere di prestare gli alimenti ai genitori poveri. Ma si dice: I figli nascituri non hanno personalità effettiva; sono possibili, non esistenti... Ma i figli nascituri sono un ente giuridico creato dalla legge, e come ente giuridico sono esistenti... Se i figli nascituri, come persona giuridica, possono ricevere per testamento o per donazione, debbono anche, quantunque non ancora nati, prestare gli alimenti ai loro genitori che ne hanno bisogno». Il ragionamento, come si vede, è in molte parti abbastanza strano, specialmente per quella sua personificazione dei figli nascituri, che, quantunque non ancora nati, hanno il dovere di prestare gli alimenti ai loro genitori futuri: ma, se non altro, arriva a conseguenza tollerabile. Non si deve però credere che tutti siano della stessa opinione; uno dei più insigni civilisti italiani, Francesco Ricci, attaccò quella sentenza veementemente, come assurda ed errata, sostenendo che i figli nascituri non hanno personalità giuridica, non sono perciò subbietti capaci nè di diritti nè di doveri, che il diritto di ricevere per eredità è loro riconosciuto [126] per mera utilità sociale; che quindi non si dovevano accordare gli alimenti. In modo che un individuo, il cui padre avesse fatto un testamento di quel genere, che si trovasse ridotto alla miseria, dovrebbe morire di fame accanto ai tesori dei suoi figli di là da venire senza nemmeno ottenerne gli alimenti! Ecco l’effetto dell’arresto ideo-emotivo professionale.
Si noti ancora che in questo modo di cercar la giustizia, cavando le deduzioni logiche di principii astratti, è giocoforza trascurare ogni considerazione riguardo alle qualità delle persone, che pure nella ricerca della giustizia sono importantissime. Tutti sentono che in un caso come quello supposto, la giustizia vorrebbe che gli alimenti fossero senza obiezioni concessi quando la prodigalità del padre si alleasse a sentimenti buoni di generosità imprevidente; ma che si potrebbero invece fare obiezioni, quando si unisse a sentimenti estremamente malvagi, che rendessero indegna di attenzione la sua miseria. Ora, questi elementi che possono, anzi debbono influire sul giudizio, non si possono menomamente calcolare col sistema presente di giustizia impersonale.
La legge prescrive come formalità essenziale alla validità di un testamento fatto innanzi al notaio, che il testamento sia letto dal notaio innanzi al testatore e ai testimoni, e che di questa lettura sia fatta menzione nell’atto. Ora, ecco la Cassazione di Torino che, con sentenza dei 3 settembre 1890, annulla un testamento di questo genere, perchè «la formula usata dal notaio nel testamento pubblico da esso ricevuto e così concepita: «Atto fatto e letto alla continua presenza degli infrascritti testimoni», non esprime in modo convincente che la lettura fu fatta dal notaio, quindi il testamento è nullo per insufficiente menzione dell’adempimento di una formalità essenziale». Il solito fenomeno: le disposizioni della legge che intenzionalmente erano dirette a garantire il testatore da possibili abusi od errori, finiscono letteralmente intese ed applicate con esclusione di ogni altra idea che illumini il senso ideale, per violare il diritto del testatore di veder rispettata la sua volontà. Se in un simile caso è dubbio che il notaio abbia adempiuta una formalità importantissima, non sarebbe più semplice interrogare il notaio e non distruggere per un lapsus calami un atto, che socialmente ha una certa importanza, quale è un [127] testamento? Le stesse stranezze troviamo nel diritto penale. Così recentemente innanzi al Tribunale penale di Milano si dibatteva la causa di un commerciante imputato di bancarotta semplice e che già era stato condannato altra volta per lo stesso reato. Il Pubblico Ministero aveva chiesto la condanna a 7 mesi di detenzione, trattandosi di imputato recidivo. Ma il difensore osservò che l’imputato, come risulta dal certificato penale, nel 1888 era già fallito altra volta, ed era stato dalla nostra Corte d’Assise condannato per bancarotta fraudolenta a 3 anni di reclusione — che quindi non poteva più legalmente esercitare il commercio — nè di conseguenza poteva essere dichiarato fallito e chiamato a rispondere della mancanza di libri, che non era obbligato a tenere. Se nell’operato del fallito si fossero riscontrati fatti di frode in danno dei creditori, avrebbero potuto dar luogo ad una azione per truffa e furto a norma del Codice penale e non già per bancarotta fraudolenta — trattandosi unicamente di non tenuta dei libri, veniva meno ogni azione penale, mancandone il fondamento, cioè la qualità di commerciante nell’imputato. Sulla questione, scrive l’avv. Valdata, rendendo conto del processo, non c’è niente da dire, perchè non poteva avere diversa soluzione: però, non è sufficientemente strana una legge che permette l’assoluzione di un imputato, solo perchè era stato condannato altra volta per un reato più grave?[162].
Di questa condizione di cose poi gli avvocati e gli imbroglioni si approfittano per porre questioni, che in tutt’altra classe di persone che non sia la magistratura desterebbero lo sdegno o il riso, tanto sono assurde; ma che i magistrati discutono seriamente e qualche volta anche sanzionano, tanto per l’abitudine mentale contratta nel lungo esercizio della professione essi hanno perduto il senso del giusto o dell’ingiusto. Così la legge considera per pura finzione come immobilizzate e quasi parti accessorie del fabbricato le macchine dell’opificio: ora, in una espropriazione per causa di pubblica utilità fatta dalle ferrovie, un proprietario di opificio pretendeva, prendendo alla lettera le parole della finzione, che gli si pagassero, oltre il fabbricato, non il prezzo del trasporto delle macchine al nuovo opificio e [128] un indennizzo per le eventuali avarie, ma il prezzo intero delle macchine: perchè, diceva acutamente il suo avvocato, la legge considera come accessorie dell’immobile le macchine, e quindi distrutto l’immobile, sono distrutte anche le macchine! La Corte di Cassazione di Torino (Sentenza del 27 agosto 1890) respinse la ridicola argomentazione; ma dopo averla discussa a lungo e seriamente: proposta in qualunque radunanza di gente intelligente, ma non specialista in fatto di giurisprudenza, non sarebbe stata seppellita subito sotto una omerica risata?
E si noti che se la Cassazione, la quale respinse la grottesca domanda, avesse applicato a questo caso quel processo mentale che applica a decidere la maggior parte delle questioni in sostituzione del sentimento e dell’idea di giustizia, avrebbe dovuto dar ragione alla richiesta. Giacchè una conseguenza curiosa dell’arresto ideo-emotivo è in questo caso la seguente: poichè, per la lunga abitudine, sembra mostruoso che si faccia appello al sentimento di giustizia per decidere le cause, e la letterale applicazione della legge è divenuta consuetudine organica del pensiero, quando un querelante presenta una domanda che urta troppo violentemente anche l’intorpidito sentimento di giustizia del magistrato, ma che egli, a fil di logica, dovrebbe ammettere, il magistrato deve, per dargli torto, cercare e ricercare qualche sottile e cavillosa ragione. Capite? Il giudice che vuol salvaguardare la giustizia, è lui costretto a cercar sofismi e rivoltolarsi come un ladro per il labirinto dei cavilli; mentre il birbante che con una sottigliezza tenta di rovinare un nemico, può dire a fronte alta che egli domanda solo l’applicazione della legge nei modi soliti. Un curioso esempio ce lo dà la Francia. In Francia, al principio della insequestrabilità della rendita non erano state poste eccezioni, come in Italia, da nessuna legge: e per questo la giurisprudenza negò nei primi tempi ai creditori del fallito il diritto di rivalersi sulle iscrizioni di rendita del fallito. La massima era socialmente pericolosissima, perchè i falliti che investivano in rendita pubblica il loro attivo, potevano frodare interamente i creditori: ma la magistratura che non ebbe il coraggio di affrontare il problema e completare la legge, ricorse invece a uno strano ripiego. La Corte di Lione, con sentenza del 19 giugno 1857, sancì la massima che la rendita era intangibile; [129] ma che... i sindaci del fallimento potevano, essendo considerati quali mandatari del fallito, alienarla[163]. Mai esercizio di acrobatismo logico fu più rischioso e stravagante di questo, che, per salvare la giustizia, deve travestire un curatore di fallimento in mandatario del fallito.
Anche più profonda è forse questa confusione del simbolo con la cosa nel campo della procedura. La procedura dovrebbe esser un complesso di formalità da eseguirsi dalle parti, per garantir loro la eguaglianza nelle condizioni della lotta innanzi al giudice; e impedir sorprese, tranelli, insidie. È riuscita nel suo scopo la legge? Che abbia mancato di sollecitudine non si potrebbe dire, tante sono le formalità da eseguirsi: ma quanto al loro risultato, dica qual’è questa sola e terribile frase, quasi proverbiale nel mondo degli avvocati: tutte le cause si vincono con la procedura. Non importa aver torto o ragione, anche dal punto di vista del loro diritto letterale; basta sorprendere l’avversario quando, in un momento di distrazione, si dimentica di osservare una delle tante formalità prescritte sotto pena di nullità, per rovinarlo. La procedura, che doveva essere una garanzia, diventa un’imboscata.
Ci ritroviamo qui innanzi al solito fenomeno dell’arresto ideativo ed emotivo. Che una certa regola sia imposta ai due avversari nel loro contegno innanzi ai giudici, si capisce, per evitare troppo facili soprusi: ma che all’osservanza di queste regole sia data una tale importanza, da farne dipendere l’esito della causa, ecco una esagerazione che può condurre a conseguenze mostruose. Che un cancelliere si dimentichi di scrivere in testa alla sentenza la formola sacramentale «In nome ecc.,» o la data, ecc., che le due parti troppo negligenti non pensino a far sanzionare una sentenza arbitramentale dal pretore entro cinque giorni dalla sua emanazione, ed ecco interamente distrutto un giudizio che rappresenta spese, lavoro intellettuale, ansie, incertezze dolorose.
Con le acute spille del cavillo procedurale si può dilaniare il cuore di un uomo atrocemente e fargli soffrire a piccole trafitte tutte le ineffabili e infinite torture morali di un processo, da cui [130] dipendono spesso l’avvenire di un uomo o di una famiglia; si può regalarsi una orgia di crudeltà sopra l’anima di un infelice, più raffinata che le crudeltà fisiche a cui certi tiranni si sono abbandonati sui corpi dei loro nemici. Tutto ciò sparirebbe se una legge umana e una umana interpretazione stabilisse un certo numero di formalità essenziali, che la parte negligente fosse invitata più volte a osservare prima di punirla con l’estrema sanzione, la perdita del processo, e rendendola più sollecita nelle prime negligenze con una multa. Che male ci sarebbe, se una parte non osserva un termine, a infliggerle per la prima volta solo una multa e a continuare il processo? Che male sarebbe, se si dimentica nella redazione della sentenza la formola iniziale «In nome, ecc.», di riportarla al cancelliere e far riparare alla omissione? E non si dica che le garanzie scemerebbero e tutto piomberebbe nel disordine; perchè disordine più immenso di quello attuale io non so immaginare, se per una involontaria dimenticanza, si può perdere il diritto a vedersi data giustizia.
Tutto ciò è così vero che se voi leggete qualche trattato teorico di diritto civile, vedrete che ogni tanto si cerca di giustificare qualche strappo ai severi principii giuridici con il pretesto dell’utilità sociale. Ne demmo più di un esempio e volendo molti altri potremmo darne: il legislatore si spaventa ogni tanto di qualche mostruosa conseguenza dei principii giuridici e allora froda per un momento la scienza che ne guida la mente. Ma non è questa la prova più bella che quei principii giuridici sono spesso assolutamente fallaci e pericolosi? Che diritto è mai questo, le cui ragioni ideali devono essere ogni tanto violate per utilità sociale? Ma che altro è il diritto, quando non è una cristallizzazione d’idee trapassate, quando è cosa vivente, se non, per così dire, l’utilità sociale organizzata? E come possono chiamarsi giuridici dei principii che, applicati interamente, produrrebbero scandali e rovine? Se ciò è possibile, nessun dubbio può sussistere che la funzione giuridica non è, almeno in tutte le sue parti, regolare e fisiologica.
Eccolo adunque, un altro danno della civiltà, in questa trasformazione del principio e della regola giuridica in simbolo mistico; e nella straordinaria forza di conservazione che esso, come tutti i simboli [131] mistici, prende allora. Si pensi infatti che nei periodi più rozzi e meno civili della storia di Roma, nei periodi più antichi, ferveva nel seno della città un lavorio continuo, che elaborava e quasi direi ribolliva continuamente il diritto, trasformandolo e riadattandolo continuamente: ora da molti secoli non si ha nell’Europa civilissima più nessuna idea di un somigliante lavoro. Noi siamo ancora in ginocchio, in adorazione davanti alle formole ultime del Diritto romano, che non sono se non l’esperienza giuridica di quel gran popolo cristallizzata: da allora in poi l’uomo ha fatto solo pochi e minimi tentativi per riplasmare ai nuovi bisogni il più importante degli elementi sociali; e questo gigantesco simbolo mistico che è il diritto, continua a dominare cieco e immutabile e a far vittime più numerose che la religione in mezzo alla vita civile moderna. Si direbbe che la società europea non si è potuta sviluppare così straordinariamente, se non con l’atrofia di uno degli organi suoi più importanti.
E il fatto che le ultime conclusioni del Diritto romano si siano trasformate in un vero simbolo mistico, mercè l’arresto ideo-emotivo, ci spiega perchè il Diritto romano si sia diffuso dovunque, nei paesi e civiltà più differenti, come recentemente in Germania. Siccome l’arresto ideo-emotivo è una legge generale della psiche umana, e siccome il Diritto romano con il gran numero delle sue regole generali bene elaborate può meglio di ogni altro favorire il processo di arresto, per questa sua capacità a favorire una delle tendenze più forti dell’uomo si è diffuso dappertutto. L’universalità del Diritto romano è un carattere di decadenza e di vecchiaia e non di eccellenza; rassomiglia alla enorme diffusione della formalistica religione cattolica, che può avere tanto più numerosi credenti, in quanto essa non pretende che l’osservanza di alcune pratiche senza ragione. Una religione spirituale non potrebbe avere che un pubblico molto più ristretto, solo in coloro al cui carattere fosse conveniente lo spirito di quella fede.
E non si dica che in questa applicazione letterale della legge non si ha da vedere che un effetto del comando della legge: la legge non fa qui che favorire con le sue disposizioni una tendenza umana, ma il suo comando riesce ad essere obbedito appunto perchè trova già ben disposta verso di sè la natura dell’uomo. Giacchè si capirebbe [132] che i magistrati, il cui dovere professionale fosse quello di applicare letteralmente una legge, si attenessero strettamente al loro mandato: ma dovrebbero, se veramente ciò non fosse che l’effetto di una costrizione legale, far sentire il loro malcontento, la ribellione della loro coscienza costretta a sancire tutti i giorni l’ingiustizia in nome di un codice che vorrebbe essere il gran libro della giustizia. Invece accade tutto il contrario: quel modo abbreviato o meno faticoso di concepire e sentire il diritto è così rispondente alle più intime tendenze dell’uomo, che in breve la mente ci si abitua così perfettamente da essere incapace quasi di concepirlo e sentirlo diversamente, con i processi più faticosi e più perfetti, con cui lo sente l’uomo che non fa professione di giurista. Io sono sicuro che lette da magistrati ed avvocati queste pagine desteranno in quasi tutti lo scandalo come di una volgare profanazione dei principii più alti della scienza giuridica. E ricordo anche la meraviglia, lo stupore che invadeva noi tutti quando cominciavamo gli studi di leggi, a vedere le singolari applicazioni dei principii giuridici, fatte in certi processi, la cui soluzione ci era detta da un illustre maestro pienamente giuridica, ma che a noi ignoranti strappava grida di indignazione; eppure quegli stessi giovani che nei primi tempi trasalivano così vivacemente, dopo due o tre anni di studi giuridici trovavano assai più normale la cosa: oggi quelli datisi alle professioni o alla magistratura, si saranno così bene avvezzati a quei processi mentali abbreviati, da trovarvisi pienamente a loro agio. Se così non fosse, già da un pezzo dovrebbe essere scoppiata tra gli uomini di legge e specialmente tra i magistrati una ribellione così violenta, che di tutto l’edificio della scienza e della pratica giuridica non sarebbe rimasto in piedi nemmeno una pietra. Invece chi sa quale sforzo sarà necessario per ottenere dei piccoli ritocchi, che a poco a poco lo migliorino, sino a renderlo abitabile dai popoli moderni, che in quello che doveva essere il loro riparo hanno trovato il loro massimo tormento.
Invece nessuno protesta perchè i magistrati potrebbero, a ragione, ripetere quel latino del Digesto, che con una ingenua sincerità descrive il fenomeno dell’arresto ideo-emotivo, che negli ultimi tempi del Diritto romano si era già, come ai nostri tempi, prodotto: Non omnium quae a majoribus constituta sunt ratio reddi potest, et ideo [133] rationes eorum quae constituuntur inquiri non oportet: alioquin multa ex his quae certa sunt subvertuntur (L. 20 e 21, D. de legibus).
Da questi rapidi cenni, che spero potrò in avvenire sviluppare in un lungo e compiuto lavoro[164], si comprende che l’avvenire della giustizia e delle istituzioni giudiziarie è nella abolizione dei codici, nell’abbandono di quei principii giuridici che sono generalizzazioni pericolose e causa determinante di arresti ideo-emotivi; nella istituzione di arbitrati, composti di persone oneste e intelligenti, incaricate di giudicare ex aequo et bono, appellandosi non all’autorità dei padri nostri, ma all’autorità della loro coscienza: forse anche è nell’abolizione della professione di magistrato e in una scelta svariata e spesso rinnovata di arbitri tra persone intelligenti, istruite, integre, che di solito attendano a diverse occupazioni perchè la costituzione di una classe di magistrati favorisce l’arresto ideo-emotivo professionale. In ogni modo, poichè il pericolo più grave per la retta funzione della giustizia, sta nel prodursi di questo arresto, la norma e lo scopo supremo di tutte le riforme dovrà essere di impedire meglio che si può che per una ragione o per un’altra l’arresto ideo-emotivo si produca in coloro che sono incaricati di amministrare la giustizia.
Allora forse nessun pessimista potrebbe più ripetere a vergogna e a condanna della società moderna, gli amari versi che Goethe fa dire da Mefistofele a Faust:
Es erben sich Gesetz’ und Rechte
Wie eine ew’ge Krankheit fort;
Sie schleppen von Geschlecht sich zum Geschlechte,
Und rueken sacht von Ort zu Ort.
Vernunft wird Unsinn, Wohlthat Plage;
Weh dir dass da ein Enkel bist!
Von Rechte, das mit uns geboren ist,
Von dem ist leider! nie die Frage.
[135]
[137]
Dedica | Pag. V | |
Prefazione | VII | |
Introduzione: La legge del minimo sforzo e la inerzia mentale | 1 | |
PARTE I. | ||
Fisio-psicologia del simbolo. | ||
Capitolo | ||
I. | — Simboli di prova | 17 |
II. | — Simboli descrittivi | 32 |
III. | — Simboli di sopravvivenza | 52 |
IV. | — Simboli di riduzione | 70 |
V. | — Simboli emotivi | 77 |
VI. | — Simboli mistici. L’arresto ideativo, emotivo ed ideo-emotivo | 83 |
VII. | — Atavismo e patologia del simbolo | 107 |
PARTE II. | ||
Applicazioni psico-sociologiche. | ||
Capitolo Unico. | — Il simbolo nel diritto moderno | 119 |
Indice degli Autori e delle Riviste citati nell’Opera | 135 |
1. Garlanda, La filosofia delle parole. — Roma, 1890.
2. Letourneau, La sociologie d’après l’ethnographie. — Paris, 1884, lib. III, cap. X.
3. Vedi riguardo a questi piaceri, Spencer, Les bases de la morale évolutionniste. — Paris, 1889, cap. IX.
4. Spencer, op. cit.
5. Ribot, La psychologie de l’attention. — Paris, 1889.
6. Richet, L’homme et l’intelligence. — Paris, 1884.
7. L’importanza di questo lato della questione fu vista dall’Hartmann, il celebre pessimista tedesco; il capitolo L’inconscio nell’intelligenza della sua opera Philosophie des Unbewusten, Berlin, 1872, per quanto imbevuto ancora di metafisica, è importantissimo. Vedi anche il bel lavoro del De Sarlo, L’inconscio in patologia mentale, Reggio d’Emilia, 1892.
8. Espinas, Des sociétés animales. — Paris, 1878.
9. Spencer, Principes des psychologie. — Paris, 1874, parte II, cap. VII; parte IV, cap. VII.
10. Kemble, The Saxons in England, II, 105, in Spencer, op. cit.
11. Spencer, Principes de sociologie. — Paris, 1882, vol. III, P. IV, cap. IV; P. V, cap. XVI.
12. Il merito di avere introdotto il concetto dell’inerzia nella psicologia spetta, come è noto, al Lombroso, che se ne servì per spiegare l’innato conservatorismo dell’uomo. È una idea straordinariamente feconda e capace delle più svariate applicazioni: io ne tento, in questo lavoro, una nuova.
13. Beaunis, Physiologie, 2ª ediz., pag. 1351.
14. Beaunis, L’expérimentation en psychologie par le somnambulisme provoqué, nella Revue philosophique, agosto, 1885.
15. Vedi, sull’influenza della musica, le originali osservazioni di Stendhal, Physiologie de l’amour, che notò sopra di sè come essa rinforzi il tono di qualsiasi sentimento si trovi per il momento nella psiche. Così, quando egli era innamorato, la musica lo rendeva più innamorato ancora; una volta che pensava ad armare una spedizione per la Grecia, raddoppiò in lui l’alacrità e l’entusiasmo.
16. Feré, Sensation et mouvement. — Paris, 1887.
17. Binet, Études de psychologie expérimentale. — Paris, 1883.
18. Bouche, La Côte des Esclaves et le Dahomey. — Paris, 1885.
19. Vedi su questo feticismo normale dell’amore Binet, Le féticisme dans l’amour (Revue philosophique, agosto, 1887) e Krafft-Ebing, Psycopathia sexualis. — Stuttgart, 1887.
20. Ottolenghi e Lombroso, Nuovi studi sull’ipnotismo e sulla credulità. — Torino, 1889.
21. Maudsley, L’esprit et le corps.
22. Op. cit. — Vedi anche, su questo argomento, i numerosi fatti portati dal Richet, L’homme et l’intelligence, Paris, 1884, nello studio: Le somnambulisme provoqué.
23. Marzolo, Saggio sui segni. — Pisa, 1866.
24. Vedi su questa ipotesi che riduce la sensazione e gli altri processi psichici a un movimento molecolare, gli studi principali di psicofisica, specialmente i tedeschi. Münsterberg, Beitrage zur experimentelle Psychologie, I, 129; Vundt, Essays, IV; Gehirn und Seele, p. 118, Physiol. Psychologie, II, 204. — Ora questa ipotesi (ammessa e nello stato presente della scienza, non si può a meno di ammetterla) questa teoria, che riconduce il processo dell’associazione mentale ai fenomeni dell’inerzia, è più che giustificata. Quando infatti due stati di coscienza sono percepiti contemporaneamente, ciò significa, secondo il Münsterberg, che due gruppi gangliari del cervello sono nello stesso tempo eccitati, ed è secondo lo psicologo tedesco legittimo supporre che si stabilisca tra i due punti eccitati una specie di via di comunicazione, attraverso la quale le due eccitazioni, che non sono che movimenti molecolari, tenderebbero a equilibrarsi. Quando poi solo uno dei due gruppi è in seguito rieccitato, una debole corrente di movimento molecolare per la via di comunicazione già aperta andrebbe ad eccitare l’altro (Münsterberg, op. cit. — Offner, Ueber die Grundformen der Vorstellungsverbindung, Marburg, 1892).
25. Marzolo, Saggio sui segni. — Pisa, 1866.
26. Così i Romani, come vedremo, quando sostituirono al governo a vita (monarchia) il governo a tempo (repubblica) credevano che tutti i poteri del re, spettassero ancora al pretore, anche quelli che contrastavano alla temporaneità ed elettività della carica.
27. Lo stesso si dica della teoria che, quando questo lavoro in proporzioni più modeste fu discusso come tesi, mi fu opposta dal prof. Carle: che cioè i simboli sono dovuti sopratutto alla vivace fantasia dell’uomo primitivo. Si è ripetutamente accennato, da molti scrittori, a questa vivacità infantile della fantasia umana, ma senza darne documenti sicuri; anzi dopo gli studi dello Spencer e del Guyau è lecito supporre invece che il selvaggio sia poverissimo di immaginazione e che la fantasia vivace sia piuttosto il privilegio delle grandi intelligenze, di Dante, di Shakspeare, di Newton, di Darwin, che non delle intelligenze rudimentali.
28. Vedi, per es., i singolari costami degli eroi di Omero (Ulisse in specie), che spesso sono i costumi di veri furfanti; i non rari poco ingenui contratti che si trovano nella Bibbia; le esperienze della doppiezza selvaggia fatte dai viaggiatori, da Cook in Australia, da Stanley e da Schweinfurth in Africa, nonchè dalla nostra politica coloniale in Abissinia. I libri poi di etnografia sono pieni di fatti e prove in proposito. Si dice che nei popoli tedeschi invece l’onore fosse quasi una religione e anche il Taine l’asserì (Taine, Histoire de la littérature anglaise, Paris, 1886, vol. I, cap. 1); ma chi ha letto nel libro di Gregorio di Tours, Historia Francorum, un contemporaneo dell’invasione dei Franchi nella Gallia, i caratteristici aneddoti sulla perfidia dei capi, può dubitare che anche gli antichi popoli germanici fossero davvero migliori, sotto questo rispetto, che la maggior parte dei loro confratelli in umanità.
29. Riguardo all’imprevidenza dell’uomo primitivo, vedi Spencer, Princ. de sociol., vol. I. — Letourneau, La sociologie d’après l’ethnographie, Paris 1884, pag. 562: «Per prevedere bisogna esser capace di osservazioni, di attenzione, saper raggruppare e paragonare i fatti, dedurre l’avvenire dal presente e dal passato. Ma l’uomo inferiore non sa osservare che in un campo ristretto, è scosso solo da quanto ha rapporto con i suoi bisogni più urgenti, la sua memoria è corta e il passato vi si cancella presto». E che per l’uomo primitivo il passato e il futuro fossero idee vaghe e indeterminate, lo prova l’etimologia: il greco Ἠρι = domani è la stessa parola che l’Heri latino, che significa ieri; quindi come osserva profondamente il Marzolo, doveva esprimere in origine vagamente un tempo fuori dell’attuale, senza determinazione di passato o di futuro. Ora, con così vaga nozione dell’avvenire, è impossibile contrattare per un tempo futuro. Nei bambini poi noi possiamo osservare quella incapacità di godere idealmente della proprietà, che dovè esser comune un tempo a tutti gli uomini primitivi. Quando regalate loro un giuocattolo lo portano con sè da per tutto, a tavola, a passeggio, al teatro. Chi non ha visto una bambina addormentarsi con la bambola nuova tra le braccia? Quando li lasciano è segno che se ne sono stancati, o che anche quella sorgente di piacere è inaridita. Di più, se promettete loro qualche cosa, la vogliono immediatamente, e si mettono a piangere se debbono aspettare.
30. Salvioli, Manuale del diritto italiano. — Torino, 1890.
31. Macpherson, Report upon the Khonds of Ganjan and Cuttack. — Calcutta, 1842.
32. Spencer, Princ. de sociologie. — Paris, 1883, vol. III.
33. Houard, Anciennes lois franc., I, pag. 101.
34. Vedi in Ducange, Anaticla, I, 415.
35. Digest of Hindu Law, II, 488.
36. Vedi Post, Studien zur Entwickelungsgeschichte des Familienrechts, Oldenburg und Leipzig, 1890, e il lucido riassunto del Colini (Un libro del dottor Post sullo sviluppo del diritto di famiglia) nel Bollettino della Società Geografica, marzo, 1891.
37. Howitt, Trans. R. Soc. Victoria, pag. 118, in Colini.
38. G. Ferrero, L’atavisme de la prostitution, in Revue scientifique, 30 luglio 1892.
39. Reclus, Les primitifs. — Paris, 1885.
40. Letourneau, L’évolution du mariage et de la famille. — Paris, 1888.
41. Reclus, Les primitifs. — Paris, 1885, pag. 240.
42. Vedi intorno a questo fenomeno e le sue cause Letourneau, L’évolution de la famille et du mariage, Paris, 1888. — Sumner Maine, Études sur les institutions anciennes, Paris, 1884. — A. H. Post, Studien zur Entwizelung der Familienrechts, Oldenburg und Leipzig, 1890.
43. Grimm, Deuts. Rechtsalther, pag. 155.
44. Beaumanoir, Cout. de Beauvoisis, cap. XVIII.
45. Grimm, Poesie in Rechte, § 6.
46. Il libro di Ruth, III, 9.
47. L. H. Morgan, Ancient Society. — London, 1877, pag. 80-81.
48. Chron. Cassin., II, 39.
49. Spencer, Princ. de sociol., vol. III. — Paris, 1883.
50. Si ricordi il palazzo di Tirinto, scoperto dallo Schliemann, chiuso da robustissime porte, accanto a cui si vedono ancora i posti delle guardie, e da cui era impossibile uscire senza il permesso del signore. — Vedi Schliemann, Tyrinthe, Paris, 1886.
51. Leg. Willem, Noth. reg. Angl., cap. LXV.
52. Rotari, cap. 224.
53. Cont. du Nivernais, t. II, pag. 134.
54. Sumner Maine, Études sur l’histoire des institutions primitives.
55. L. 5, § 10, D. de oper. novi nunt. — L. 20, § 1, D. quod vi aut clam.
56. Marzolo, Saggio sui segni. — Pisa, 1866.
57. Bertillon, Les races sauvages. — Paris, 1883.
58. Bancroft, The native races, etc.
59. Letourneau, La sociologie d’après l’ethnographie. — Paris, 1884.
60. Numeri, XV, 37, 38.
61. Marzolo, Saggio, ecc.
62. A. De Remusat, Recherches sur les langues tartares, pag. 65.
63. Bertillon, op. cit.
64. Journal Asiatique, aprile-maggio 1868.
65. Giosuè, IV, 6-7.
66. De Lanoye, L’homme sauvage. — Paris, 1873, pag. 41.
67. Bouche, op. cit.
68. I ladri sanno ancora sfruttare questo ferravecchio della storia della civiltà. Una loro forma di furto è quella di rubare in un club o in altro luogo, per es. il cappotto di una persona, di andare a casa sua e di inventare, che sono mandati dal padrone per prendere o una somma di denaro o qualche oggetto prezioso: la prova della loro missione sta appunto nel cappotto o altra cosa della persona, che essi hanno tra le mani.
69. Sull’origine di questi simboli non parlo, perchè la questione è stata già risolta dallo Spencer, Principes de sociologie, vol. III, parte I. Io quindi mi sono ristretto a studiare l’uso fatto dei simboli, supponendone già nota al lettore la genesi.
70. Bouche, op. cit.
71. Greg. Turon, VII, 3.
72. Si dirà che nel Medio-Evo si conosceva ben la scrittura. È vero: ma non basta possedere uno strumento, bisogna anche comprenderlo, conoscerlo bene e saperne usare; ora, nel Medio Evo la scrittura era uno strumento troppo complicato, perchè data la condizione generale della coltura, il suo uso potesse essere diffuso; era una tradizione della civiltà romana conservata, come tante altre, da un piccolo gruppo di persone, che quasi sempre furono i religiosi. «Durante molti secoli, scrive il Bukle, fu raro il veder un laico che sapesse leggere o scrivere» (Histoire de la civilisation en Angleterre, vol. I, pag. 348, Paris, 1881); e il Dowling (Introduction to the Critical Study of ecclesiastical History, 1838, pag. 56): «Gli scrittori erano quasi tutti ecclesiastici, e la letteratura null’altro che un esercizio religioso». Così i re merovingi non sapevano scrivere. Carta e inchiostro furono nel Medio Evo oggetti rarissimi; la carta, specialmente dopo che le invasioni saracene nella Sicilia resero difficili le comunicazioni con l’Egitto; i monaci dovettero inverniciare i loro codici per scrivervi su i loro salmi; e il Petrarca non trovò, più d’una volta, in città considerevoli della Francia, una goccia d’inchiostro per copiare codici latini. Di più, tanto è vero che la scrittura era poco capita in quei tempi, che noi troviamo certi manoscritti medioevali (es., parecchi del Sachsenspiegel), in cui sono intercalate figure che illustrano il testo e ne agevolano la comprensione, formando una vera mescolanza di scrittura e pictografia, quale noi la troviamo nei libri dei Batacchi (Bastian, Der Mensch in der Geschichte, Leipzig, 1861, vol. I. — Modigliani, Tra i Batacchi indipendenti, Roma, 1893).
73. Michelet, Les origines du droit français cherchées dans les symboles et d’après les formules du droit universel. — Paris, 1892.
74. Questa connessione è rivelata dalla parola gallese maes, che significa ager e curia (Vedi Leges Wallicae, II, 10, 11, 12).
75. Ducange, Investitura, 1535. — Galland, Franc-allen, XX, 340.
76. Per questo credo che le scritture mnemoniche abbiano precedute le scritture a disegno, sebbene popoli rozzissimi, e perfino le popolazioni preistoriche sapessero disegnare relativamente bene (Vedi Massenat, Matériaux pour l’histoire de l’homme primitif, 1869. — Joly, L’homme avant les métaux, Paris, 1879). Io credo che il disegno preesistè alla scrittura pictografica, cioè che il disegno non fu impiegato come mezzo di comunicazione tra gli individui, se non molto tempo dopo che era praticato all’ornamento delle armi, delle case, ecc. Difatti, dover graffire una scena di caccia o di pesca è minor fatica, che dovere esprimere con figure una idea determinata; perchè nel primo caso il disegnatore può scegliere e variare a piacere le figure, purchè nel complesso diano l’idea dello spettacolo che si vuol rappresentare; nel secondo invece è schiavo della sua idea e bisogna che cerchi quali figure proprie importino di più a far comprendere più esattamente a un estraneo la propria idea.
77. Garlanda, La filosofia delle parole, Roma, 1890. — Marzolo, Brevissimo sunto sulla storia dell’origine dei caratteri alfabetici, Venezia, 1857. — Ascoli, Del nesso ario-semitico, Milano, 1864. — Lenormant, Essai sur la propagation de l’alphabet phoenicien dans l’ancien monde, Paris, 1872.
78. Romanes, L’évolution mentale chez l’homme. — Paris, 1891.
79. Spencer, Principes de sociologie, vol. I. — Paris, 1878, pag. 489.
80. Marzolo, Monumenti storici rivelati dall’analisi delle parole, vol. I, Padova, 1847. — F. Steinthal, Die Mande-Neger Sprachen, psichologisch und phonetisch betrachtet, Berlin, 1867.
81. Il Ribot, in alcuni suoi recenti e interessantissimi studi (Une enquête sur les variétés des concepts, in Revue scientifique, 3 settembre 1892), cercò di determinare che cosa si producesse nella coscienza, oltre il nome, quando si legge o si ascolta una parola astratta o generale. L’esperienza tentata su 900 individui diede questi risultati: nel 47% si produceva o una imagine concreta (per es., la parola legge richiamava l’idea dei giudici togati), o l’imagine ottica della parola stampata, o l’imagine acustica della parola pronunciata; il 53% rispose che in essi non si risvegliava nulla. Il Ribot osserva giustamente che questo niente deve essere qualche cosa e che con un’indagine più minuta si scoprirebbe: in ogni modo, ciò dimostra che deve essere uno stato di coscienza molto vago, se non si riesce a determinarlo con parole. Quindi una scrittura a disegno sarebbe almeno per questo 53% assai faticosa; e lo sarebbe egualmente, in quell’altro 47%, a quelli che appartengono, come dice il Ribot, al tipo visuale tipografico o al tipo uditivo.
82. Lenormant, Essai sur la propagation de l’alphabet phoenicien dans le monde ancien. — Paris, 1872, vol. I, cap. I.
83. Bopp, Glossarium sanscritum, Berolini, 1847. — Marzolo, Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola, Padova, 1847, vol. I. — Vignoli, Mito e Scienza, Milano (Bibl. scient. intern.).
84. Grimm, Poesie im Recht, passim. — Eisenhart, Grundsätze des Deutschen Rechts in Spruchwörtern, Leipzig, 1822. — Lex Wisig., I, 8.
85. Goethe (Maximen und reflexionen) e Carlyle (Sartor Resartus) notarono essi pure come l’imagine sia in origine un modo quasi naturale di esprimersi. G. Trezza, poi (Studi critici, Verona 1878, pag. 224), ha benissimo descritto il carattere imaginoso delle concezioni primitive: «Nello stato arcaico del sentimento, si mescono le forme delle cose e vi destano una impressione confusa, appunto perchè la natura vi si rivela in un modo confuso. È veramente una vasta metafora il modo con che la natura si riproduce nel sentimento mitologico. Tuttavia la metafora non era in quei tempi un processo consapevole, nato da una intuizione precisa delle analogie ideali tra le cose diverse, ma un istinto divino, che prorompeva dal sentimento stesso. La metafora ei la portava dentro di sè, lingua vivente di una coscienza impregnata di sensazioni vivacissime estranee». Senonchè, come si vede, la spiegazione che io do del fenomeno, è diversa da quella dell’illustre e compianto professore di Firenze. Anche il Max Müller, che sostiene, a torto o a ragione, esser la religione una vasta metafora primitiva, di cui si è perduto il significato, una malattia del linguaggio (diseased language), intuì bene, senza però spiegarla, la grande importanza della metafora nella psicologia primitiva dell’uomo. — Vedi, oltre le opere di Max Müller, Cox, The mithology of arian nations. — London, 1870.
86. Pausania, Att., I, 23.
87. Herod., VII, 225.
88. Bouche, op. cit.
89. Lefèvre, La religion. — Paris, 1892.
90. Tylor, Civilisation primitive. — Paris, 1884.
91. Bastian, Der Mensch in der Geschichte, vol. I, p. 265. — Leipzig, 1860.
92. Marzolo, Brevissimo sunto della storia dell’origine dei caratteri alfabetici, pag. 15, Venezia, 1857. — Vedi in questo opuscolo, sunto d’una grande opera che rimase, pur troppo, come tante altre del sommo pensatore, inedita, le prove etimologiche di questa figliazione delle lettere alfabetiche dalle figure delle costellazioni.
93. Sumner Maine, op. cit.
94. Vedi in Spencer, Princ. de soc., vol. III, pag. 139 e seg., le prove che l’idea dello scambio è sconosciuta a molti popoli primitivi. In latino emere non significava originariamente, come notò il Muirhead, comprare per denaro, ma solo prendere, ricevere, acquistare (ved. in Festo, voc. redemptores). Quanto alla proprietà fondiaria, essa, come è noto, non esiste presso i popoli primitivi e anche i popoli civili non la conobbero che tardi: secondo Mayer, Die Rechte der Israeliten, Athoener und Römer. (I, 361) l’ebraico non ha parola per esprimere proprietà fondiaria: e secondo Mommsen «l’idea della proprietà non era presso gli antichi Romani associata al possesso delle cose immobiliari, ma solo al possesso degli schiavi e del bestiame». E l’origine della proprietà fondiaria fu la violenza. «Solo la forza — scrive lo Spencer — sotto una forma o sotto un’altra è la causa capace di obbligare i membri di una società a cedere il loro diritto al godimento comune del territorio che abitano. Ora è la forza di un aggressore esterno, ora quella di un aggressore interno...». (Principes de sociologie, vol. III, pag. 728, Paris, 1883). — Vedi anche in Loria, Analisi della proprietà capitalistica, vol. II, la lunga documentazione delle origini violente della proprietà fondiaria. Ricorderemo qui che praedium e praedari hanno comune etimologia, che hortus e haeredium derivano da una radice ghar che in sanscrito significava prendere, impadronirsi; che la lancia era presso i Romani il signum justi dominii.
95. Spencer, Les bases de la morale évol., Paris, 1887, pag. 99. «Quando, come nelle società più rozze, non esiste ancora nè regola politica, nè regola religiosa, la causa principale che impedisce di soddisfare un desiderio quando si manifesta, è la coscienza dei mali che risulteranno dalla collera degli altri selvaggi, se la soddisfazione del desiderio è ottenuta a loro spese».
96. Gianturco, Istituzioni di Diritto civile italiano. — Firenze, 1887, pag. 107.
97. Houard, Anc. lois françaises, I, 378.
98. Fraser’s Journey, II, pag. 372.
99. Moerenhout, Voyage aux îles du Grand-Océan, II, pag. 68.
100. Earle, Residence in New Zealand, pag. 244.
101. Letourneau, L’évol. du mar., etc. — Paris, 1888.
102. In Australia gli sforzi dei missionari per togliere il matrimonio per ratto trovarono opposizione, specialmente nelle donne (Letourneau, La sociologie, etc., Paris, 1884). Il sentimento dell’uomo riguardo al ratto dovè esser lungamente analogo a quello che noi troviamo tra gli Zulù rispetto alla compra della sposa. — Ratzel, Le razze umane, Torino, 1892, vol. I, pag. 387: «Soltanto la compra fa sentire la forza reciproca del vincolo matrimoniale; e marito e moglie non si riterrebbero uniti legalmente, se il marito non avesse dato o almeno promesso qualche cosa per averla. Un uomo poi si sentirebbe umiliato, se prendesse una moglie per niente».
103. Dugmore, Kafir Laws and customs, pag. 37.
104. Secondo il Muirhead, questa formola, riportataci da Gaio, è troppo vaga, e probabilmente il convenuto rispondeva provando il suo titolo.
105. Buonamici, Delle «Legis actiones» nell’antico Diritto romano, Pisa, 1868. — Muirhead, Storia del Diritto romano, Milano, 1888.
106. Vedi a questo proposito le belle osservazioni del Sumner Maine, Etudes, etc.
107. «In loco iuxta fluvium pheterac» (Meichelbeck, Hist. frising., n. 368). «Actum super fluvium Moin in loco nuncupante Franconofurd» (Ried, Cod. dipl. Ratisb., n. 10, an. 794).
108. «Acta sunt haec apud Velbach in littore laci turicini» (Neugart, Cod. dipl. Alleman., N. 1030, an. 1282).
109. «Zu dem richtbrunnen an dem landtag bi stuhlingen» (Vegelin, II, 221, an. 1391).
110. «Beim Born zu Pfungstatt» (Wenk, Hess. Gesch., I, 82).
111. «Sein Gericht mag er (der Landrichter) setzen vor der Bruche» (Walch, Vermischte Beiträge zu den deutschen Recht, III, 257).
112. Joinville, Hist. de S.-Louis, 1668, pag. 12 e 13.
113. Spencer, Princ. de sociol., III, p. 665.
114. Ellis, Polynesian Researches, tom. I, pag. 202, 203.
115. Ardigò, Relatività della logica umana, nel III volume delle Opere filosofiche. — Padova, 1885.
116. Reymond, Le arti figurative e un vecchio pregiudizio fisiologico sulla visione. — Torino, 1891.
117. Spencer, I primi principii. — Milano, 1888.
118. Bourget, Nouveaux essais de psychologie contemporaine.
119. Lombroso, L’uomo di genio. — Torino, 1888.
120. Krafft-Ebing, Psycopathia sexualis. — Stuttgart, 1889.
121. Tylor, Forschüngen über die Urgeschichte der Menschheit, trad. ted., pag. 25.
122. Garrick Mallery, Sign-Language among the North-American Indians (First annual Report of the Bureau of Ethnology. — Whashington, 1881).
123. Reise der osterreichischen Fregatten Novara um die Erde-Linguisticher Theil, von dr. Friedrich Müller, Vien, 1867. — Marzolo, Monum. stor., ecc., vol. I.
124. Spencer, Princ. de soc., vol. III. — Paris, 1883.
125. Ducange, Investitura, III, 1531.
126. Vedi in Spencer (Princ. de sociol., vol. III, chap. II, Paris, 1883) le prove sulla enorme diffusione del trofeo in tutte le razze.
127. Op. cit.
128. Chroniques de Monstrelet, vol. II, lib. I, chap. CVII, pag. 435.
129. Floquet, Histoire du Parlem. de Normandie, vol. I, pag. 250-256.
130. Bukle, Histoire de la civilisation en Angleterre, vol. III, pag. 294. — Paris, 1887.
131. Vedi riguardo a questa polemica lo Spencer. Principes de sociologie, vol. I, Paris, 1878, ed il Guyau, L’irreligion de l’avenir, specialmente a pagine 26-38. — Paris, 1887.
132. Spencer, Principes de psychologie, vol. I, pag. 302. — Paris, 1874.
133. Hartmann, Die Philosophie, etc., nel capitolo: L’inconscio nell’intelligenza.
134. Guyau, L’irréligion de l’avenir. — Paris, 1887.
135. Id., id.
136. Stephenson, invece, un giorno vedendo una sua locomotiva correre via rapida, esclamò: E dire che è il sole che la fa muovere (Ardigò, La formazione naturale nel fatto del sistema solare, Padova, 1884). — Ecco la differenza tra il ragionamento dell’uomo medio e il ragionamento del pensatore di genio: in quello le associazioni si restringono a quelle sensazioni che si sono più volte seguite nell’esperienza e che hanno lasciata una traccia di sè nella psiche in immagini o idee; in questo invece si formano da idee lontanissime e apparentemente senza alcun nesso. Ma non dimentichiamo che gli Stephenson e i Newton sono una eccezione nell’umanità, che nella sua massa è composta di ben altra stoffa di individui.
137. Bertillon, Les races sauvages. — Paris, 1833.
138. Revue politique et littéraire. — Paris, 1888.
139. Niblack, The coast indians of soutern Alaska and northern british Columbia. — Washington, 1890.
140. Marzolo, Saggio sui segni, pag. 37. — Pisa, 1866.
141. La tradizione della ninfa Egeria e di Numa Pompilio rappresenta una variante del fenomeno. Siccome usualmente la massima parte degli uomini, non produce da sè le idee che ha, ma le riceve da altri, dai vecchi, dai creduti sapienti, ecc.; così si crede che quando uno ha un gran numero di idee le debba aver ricevute da un altro, da un essere superiore.
142. Saggio sui segni.
143. Lefèvre, La religion, pag. 538. — Paris, 1892.
144. Tanzi, I germi del delirio. — Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale, vol. XVI, fasc. I-II, Reggio Emilia, 1890.
145. Marzolo, Saggio, ecc.
146. Salvioli, op. cit.
147. Binet, Etudes de psychologie expérimentale. — Paris, 1888.
148. Genesi, XXVII.
149. Questa idea non ha nulla di comune con quella del Loria, che (Analisi della proprietà capitalistica, vol. II) sostiene sì, essere la logica variabile, ma che le sue variazioni dipendono dalle condizioni diverse della terra libera. E cita il fatto che nelle età in cui la schiavitù è necessaria per le condizioni economiche, tutti gli scrittori ne sostengono la legittimità, mentre nelle età in cui non è più necessaria, è da tutti maledetta e dimostrata una infamia. Ma forse perchè Aristotile concludeva che la schiavitù non si poteva abolire, mentre Spencer tratterebbe di pazzo chi volesse ricostituirla, si può dire che i processi logici con cui l’uno e l’altro arrivano alle diverse conclusioni siano differenti? Ma sono le premesse che differiscono, il punto di vista, i dati della questione e quindi anche le conclusioni, non la maniera di ragionare: il sillogismo funziona nel cervello dell’uno come in quello dell’altro. Invece non funziona nello stesso modo nel cervello di Aristotile e in quello di un ragazzo o di un selvaggio: così tra l’altro il Marzolo dimostrò che il post hoc ergo propter hoc, eresia immensa nella logica ideale, è una vera legge del ragionamento come si fa dai bambini, dai selvaggi, e ancor oggi dagli uomini più rozzi (Vedi quella bellissima memoria che è il saggio forse più stupendo scritto sin qui sulla psicologia dell’uomo inferiore: Marzolo, Delle disposizioni originarie soggettive dell’uomo e degli effetti loro, Milano, 1862). La logica è una funzione del cervello; e può solo variare, come tutte le funzioni, secondo il variare dell’organo.
150. Spencer, Principes de sociologie, vol. III.
151. Spencer, Istituzioni ecclesiastiche. — Città di Castello, 1886.
152. Draper, Histoire du développement intellectuel et moral de l’Europe. — Paris, 1868-69, vol. II.
153. Michelet, Les symboles, etc.
154. Spencer, Principes de sociologie, vol. III.
155. Id., id.
156. Di qui dipende l’intenso ma ristretto altruismo dei membri di molte tribù, uno rispetto all’altro; il che però non esclude la più assoluta ferocia riguardo agli stranieri. Vedi l’articolo del principe Krapotkine: L’appui mutuel chez les sauvages, nella Société nouvelle, gennaio 1893.
157. Bouche, op. cit.
158. Alongi, La camorra, Torino, 1890.
159. Arch. di psichiatria e scienze penali, 1880, fasc. II. Vedi questo intaglio riprodotto nell’Uomo di genio, tav. VII.
160. Spencer, La giustizia. — Città di Castello, 1893, pag. 48-49.
161. Sumner Maine, Ancient Law, pag. 76-7, 3ª ediz. (Citato da Spencer).
162. Giornale La Lombardia, 15 marzo 1893.
163. Journal du Palais, t. LXXVII, pag. 824.
164. In un lavoro che avrà forse per titolo: La formazione naturale della giustizia; l’espressione dell’Ardigò formazione naturale parendomi, almeno in questa materia, più esatta che l’altra evoluzione dello Spencer.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.